La distruzione cristiana del mondo classico

Il presbiterio della basilica di Santa Maria Assunta in Gallarate di Claudio Parmiggiani, augurato pochi mesi fa (novembre 2018), ha suscitato numerose controversie sia dal punto di vista estetico che dottrinale: al di là dell’idea di accatastare in una chiesa decine di teste mozzate (che ha portato qualcuno a paragonarlo a un altare azteco), a rendere perplessi è soprattutto la presenza tra gli “idoli decapitati” della Maria della Pietà di Michelangelo e di altri capolavori del Bernini, del Borromini e del Canova, per non dire della sospetta predilezione dell’artista per le opere classiche perfettamente integrate nell’immaginario cristiano (la quale, come nota “Aleteia”, fa cadere la scelta sull’Apollo del Belvedere piuttosto che su quello Sauroctono).

Se però l’ipoteca del “macabro” è facilmente aggirabile ricordando tutte le truculente delizie che l’arte cattolica ha donato all’umanità (pensiamo solo al magnifico ossario di San Bernardino alle Ossa), a porre maggiori dubbi è proprio il “messaggio” che l’opera vuole comunicare: nonostante la stampa cattolica mainstream tenda a rassicurare sull’ispirazione della creazione di Parmiggiani (contro l’idolatria e il “paganesimo” come inteso dallo stesso Papa Francesco), non può sfuggire il significato iconoclasta, se non prettamente “barbaro” e “fondamentalista” (e, come notavamo, il fondamentalismo cattolico non è meno pericoloso degli altri).

Lasciamo da parte, per questioni di (buon) gusto, i risvolti (meta)politici della scultura, ché probabilmente qualche prete “bergoglionito” si sarebbe esaltato nel ritrovare tra le teste mozzate qualche somiglianza con Salvini, Trump o Marine Le Pen: in verità questa chiave di lettura è già implicita nella riduzione a “paganesimo” di qualsiasi testimonianza di cattolicesimo che non sia indirizzata verso l’auto-distruzione.

Assumiamo dunque come scontata la “buona fede” (è il caso di dirlo) dell’autore e concentriamoci sul senso originale da egli dato alla sua opera, in ultima analisi quello di testimoniare l’assoluta discontinuità tra mondo classico e cristiano. Il tema è di recente emerso in un volume appena tradotto in italiano da Bollati Boringhieri: Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico della giornalista britannica (che però si presenta come “classicista”) Catherine Nixey. Si tratta di un saggio mediocre non solo se paragonato con la produzione nazionale (persino un Alberto Angela potrebbe surclassarla), ma forse poco adatto persino al pubblico anglofono, che in pieno XXI meriterebbe qualcosa di più che non il solito bigino gibboniano.

L’ossessione della Nixey è appunto quella di smentire la presunta continuità tra mondo classico e religione cristiana, dimostrando come gli adepti di quest’ultima, per imporre la loro fede, abbiano dovuto fare tabula rasa e agire in maniera più feroce e spregiudicata dei militanti dell’Isis (il paragone è onnipresente nel volume). Stendiamo un velo pietoso sulle numerosissime imprecisioni storiche e cadute di stile contenute nel libro: la classicista prestata al giornalismo (o viceversa, che è più credibile) alimenta il “mito” della Biblioteca di Alessandria (nella quale colloca anacronisticamente pure il padre di Ipazia); se la ride letteralmente dei martiri cristiani (“questa gente bizzarra”) mentre descrive le torture alle quali furono sottoposti; accredita la “aristocraticità” della religione romana (“tradizione imperiale di pluralismo e tolleranza”) contro il nuovo “culto da pezzenti”; pur dedicando elogi tanto improbabili quanto sperticati al “libertinismo” classico, per giustificare il mos maiorum deve infine chiamare in causa il “giro di vite augusteo sull’immoralità” (quasi a dire che c’è sempre un Trump a rovinare la festa, o il festino).

Tralasciamo pure la conclusione “islamofila” del libello (la solita storia che mentre qui c’era il Medioevo gli arabi costruivano le astronavi ecc…) e tanti altri passaggi esilaranti ma incommentabili («Non è l’implicita irriverenza di fronte alle proprie divinità [che irrita i governatori romani], ma l’esplicita mancanza di rispetto nei confronti della propria autorità»), nonché la pessima resa editoriale (nella traduzione viene riproposta in maniera ossessiva la dicitura “d.C.” perché nell’originale sono state utilizzate altre sigle strampalate) e veniamo al punto: non è strano che un certo progressismo cattolico, così avverso all’idea che la “classicità” possa essere cristianizzata, vada a braccetto con un certo anti-cristianesimo “conservatore” (come è quello in fondo espresso dalla Nixey), che vorrebbe ripristinare il concetto di un potere puramente “pagano”, slegato da ogni nefasta influenza cristiana?

È una domanda che dovrebbero porsi coloro i quali, sempre pronti a denunciare qualsiasi alito di vento come “deriva pagana”, hanno concorso a formare l’ideologia odierna secondo cui, per esempio, uno Stato che proclamasse il cristianesimo come propria religione ufficiale sarebbe per paradosso da considerarsi automaticamente “idolatrico”, “farisaico”, “restaurazionista”, “trionfalista” ecc…

Mi pare che in conclusione il presbiterio del Parmiggiani da cui siamo partiti vada anch’esso in tale direzione: testimoniare l’inimicizia assoluta tra classicità e cristianesimo. La stessa cosa che vorrebbero quelli desiderosi di cancellare dalla faccia della terra qualsiasi traccia del “culto da pezzenti”: ma siamo sicuri che tutto ciò vada a favore della “vera fede”, o non si tratta semplicemente della stessa manifestazione di sentimenti poco benevoli verso di essa?

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5 thoughts on “La distruzione cristiana del mondo classico

  1. Provando a rispondere alla domanda principale: Il progressismo nega la funzione del katechon , cioè nega che il messaggio cristiano possa anche auspicare e produrre un ordinamento della società , attuato da culture non espressamente cristiane o mediante la contaminazione tra queste. La classicità sarebbe un corpo estraneo , particolarmente odiata quella romana , che invece la Chiesa rivendica (rivendicava). Coloro che auspicassero un ritorno al sacro nell’ordinamento, mutuato da quanto di buono esisteva nel mondo classico, denoterebbero “uno stato estremo di ateismo” (Harendt). Dall’altro lato il neopaganesimo , o l’ “esoterismo conservatore” tornato di moda , non fa che vagheggiare l’età dell’oro , distrutta dal “culto da pezzenti”. Anche qui si tratta di una visione se non del tutto antistorica , certamente parziale. Marta Sordi ha dimostrato che il Cristianesimo ha fatto breccia anzitutto presso le classi elevate. Forse ciò rappresenta un ulteriore elemento di avversione da parte del commissioning episcopale ondeggiante tra pauperismo minimalista e furore iconoclasta.

  2. Archiviato Bergoglio i tempi saranno prest maturi perchè il papato torni ad essere europeo.
    Il papato gesuitico-progressista ha rinfrancato le chiese latine, ha parlato alle giovani chiese del sud-est asiatico (fiilippine. sud-coreane tra tutte), soprattuto ha messo le basi per penetrare nella società cinese a piccoli passi, e di questo gli va dato atto. La Segreteria del Partito Comunista Cinese, da parte sua sa benissimo che alla nuova classe media cinese una certa dose di fede cattolica non fa poi così male, anzi la messa, la famiglia, la comunità cura le aberrazioni del virus capitalista meglio di qualche pratica tao-buddista.
    Insomma per un decennio, i nuovi cattolici ovunque essi siano dovranno aspettare: Aspettare che un Papa torni protagonista della scena europea: un Papa radicato, radicante e radicale, Papa pastore e crociato che chiami a raccolta i governi e i popoli europei a una reconquista demografica contro l’islamizzazione. Un Papa mentore dei capi di governo europei, pronti all’ accoglienza quando serve ma simmetrica e senza sconti nel riconoscimento dei valori cristiani; un Papa che riporti al centro difesa della vita, il solidarismo, la giustizia sociale indossando un bel jilet giallo vaticano contro funzionari d’apparato e les chanteuses dei poteri finanziari.
    Un Papa che riparta dal Kerigma paolino e a colpi di Katechon torni a formare le (sciagurate) donne al divino insegnamento: le società europee vanno rieducate ai Valori, al sacramento matrimoniale, alla promozione della famiglia, imago trinitatis a fondamento della comunità, unico freno alla Bestia Capitalista e alla Prostituta Femminista, su di essa adagiata.

  3. L’altare di Gallarate, dal punto di vista iconologico e iconografico, non può essere giudicato un altare cattolico (prescindo dal fatto che l’opera sia stata consacrata al culto cattolico).
    Cito, per gli aspetti che motivano il mio grave giudizio, da una pubblicazione che non può certo essere tacciata di tradizionalismo.
    «[…] Con un’espressione sintetica possiamo dire che l’altare nella sua iconologia è la mensa del convito sacrificale […].
    In dipendenza dalla sua iconologia, l’iconografia dell’altare, cioè la sua concreta fattura di luogo liturgico, dovrà mettere insieme i due aspetti conviviale e sacrificale […].
    Dall’iconologia e iconografia primarie derivano altri valori teologici dell’altare e quindi altri criteri per la sua realizzazione come luogo liturgico. In tal senso possiamo parlare di iconologia e iconografia derivate.
    Dal punto di vista iconologico l’altare è anche:
    – segno di Cristo sacerdote e vittima, non solo durante la celebrazione ma in modo permanente;
    – segno di Cristo pietra viva e pietra angolare su cui si costruisce la Chiesa;
    – segno dell’unico Cristo e dell’unica Eucaristia nella Chiesa […].
    Riguardo le immagini più appropriate per l’altare la tradizione ci indica un simbolismo cristologico: l’agnello dell’Apocalisse, i sacrifici dell’antico testamento come prefigurazione del sacrificio della croce, il monogramma di Cristo, la croce gloriosa, il Cristo seduto in trono e altri. Meno indicata è la rappresentazione dell’ultima cena; in tal caso non si tratterebbe di un simbolo ma di una didascalia pleonastica […].».
    http://web.mclink.it/MG9765/files/Altare-centro-della-celebrazione-liturgica-17-dicembre-2007.pdf
    I criteri indicati si dovrebbero considerare un vero e proprio “canone” iconografico, ben testimoniato dalla Tradizione (basta andare sul web e cercare le voci “altare” e “Ratchis”, per rendersi conto di come in tempi lontani si sapesse quello che si faceva).
    Pertanto, è evidente che quanto realizzato a Gallarate non corrisponde alla teologia liturgica cattolica, neppure nella sua forma “ordinaria”.
    Cosa confermata ancora di più se si legge tutto il pdf linkato, dato che l’opera di Parmiggiani appare come un corpo estraneo nella specifica chiesa-edificio, non in dialogo formale e cromatico, ma in aperta rottura.
    Niente di nuovo, è ben noto che i rivoluzionari debbono coattivamente violentare le preesistenze.

  4. Se ” Nel nome della croce ” sembra “un libro mediocre ” può leggere ” Christianity book burning and censorship in late antiquity ” di Dirk Rohmann, ma forse anche questo è un libro “mediocre”.

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