La fronda anti-Trump nell’estrema destra americana: Andrew Anglin, Nick Fuentes e i bianchi del Sud

Come è noto a chi segue un po’ le vicende d’oltreoceano, esiste da tempo, probabilmente da secoli, una fronda anti-repubblicana nell’estrema destra americana: essa in parte rappresenta un’eredità dell’immortale odium che i bianchi del Sud nutrono nei confronti di Abraham Lincoln, nonché una sgradita manifestazione delle radici “democratiche” del suprematismo bianco.

Questa è una pagina di storia sconosciuta alla maggior parte dell’opinione pubblica italiana, che non ha mai sentito nominare personaggi come John Elliott Rankin o Theodor Bilbo e probabilmente si è imbattuta nella questione solo in virtù di una puntata di House of Cards in cui appunto il protagonista Frank Underwood, interpretato dal ributtante -anche nella vita reale- Kevin Spacey, nel momento in cui vince le elezioni da candidato democratico viene travolto da uno scandalo legato alle frequentazioni di suo padre con il Ku Klux Klan.

Nelle pellicole di Hollywood il tema è del resto sapientemente occultato, quindi non è colpa degli italiani che non si “informano” ma di un’imbarazzante operazione di propaganda, che comunque non impedisce alla questione di riaffiorare: per esempio, ancora nel 2023 i repubblicani hanno rilanciato la polemica (risalente al 2010) sulla presenza ai funerali del senatore democratico Robert Byrd (che in gioventù aveva partecipato alle parate del KKK) di tutto l’establishment del Partito, rivendicando implicitamente un’identità alternativa a quella di “destra bianca” che i media hanno voluto appiccicare al Great Old Party, le cui radici invece affondano proprio nell’emancipazione degli afroamericani negli Stati schiavisti.

Se ho ricordato rapidamente certi “retroscena” non era per imbastire una lezioncina ma per far capire al lettore che il retaggio sudista è ancora molto forte anche nei militanti più estremisti, e che solo negli ultimi anni, con l’ascesa di Barack Obama e il suo insostenibile ottennio, è stato messo in crisi.

Un importante rappresentante di tale corrente è Richard B. Spencer, uno dei suprematisti bianchi che per qualche anno è stato il volto internazionale della cosiddetta alt-right ma che in realtà si è concesso di fare propaganda per i repubblicani (o per meglio dire per Trump) solo tra il 2016 e il 2018, salvo poi pentirsene repentinamente e ritornare nel suo habitat elettorale tradizionale sia per le passate elezioni che, probabilmente, per quelle imminenti.

Tutto ciò per dire che esiste una grande fetta di “fratelli ariani” con le svastiche tatuate che ha smesso di votare democratici negli anni di Obama ma che volentieri riprenderebbe a farlo, anche per una Kamala Harris che non ha mai rivendicato le proprie origini afroamericane se non in concomitanza con la candidatura alla presidenza (qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo su come viene intesa la “negritudine” dall’elettorato nero e di come lo stesso “primo Presidente nero” della storia non venisse considerato tale da un’ampia minoranza di esso non solo per motivi politici ma anche etnici, ma ci sarà tempo di discutere anche questo).

Al di là però dei vari retaggi, un dato di fatto è che una buona parte degli americani di simpatie conservatrici è tornata a votare Repubblicano solo grazie a Donald Trump, che nonostante tutto conserva ancora, anche solo all’apparenza, quelle caratteristiche “anti-sistema” che lo rendono così distante dall’insopportabile destra istituzionale, oscenamente ammanicata con ogni tipo di lobby. Purtroppo, il caro vecchio Donald in questi anni ha avuto modo di deludere quasi tutti e allo stato attuale c’è un’importante fronda all’interno dell’area la quale, piuttosto che rivederlo alla Presidenza, inciterebbe i propri seguaci a votare anche per una Harris.

Non voglio fare molti nomi perché altrimenti Google mi penalizza nel suo motore di ricerca (oltre a demonetizzarmi il pezzo), ma un paio di figure importanti nell’ambito dell’alt-right (o come si fa chiamare ora quel movimento-corrente-area) vanno citate: il primo è Andrew Anglin, il giornalista più ricercato d’America, che nonostante ogni tot mesi sia costretto a ricrearsi un uditorio per sfuggire alla censura, detiene comunque un grande seguito. Dopo aver sostenuto apertamente Trump nel 2016, anch’egli se ne è allontanato, soprattutto per le posizioni su Israele, ma anche per il lassismo sull’immigrazione: en passant, ricordo che solo nell’ultima settimana Trump ha sostenuto la necessità di importare manodopera straniera per “far funzionare l’intelligenza artificiale”, oltre che invitare lo Stato ebraico a “espandersi” (Israel is a tiny spit compared to these huge areas of land… I asked, Is there a way to expand? It is so small..) e rimpiangere (a un congresso dell’AIPAC) il fatto che “fino a 15 anni fa se parlavi male di Israele la tua carriera politica era finita” perché “la lobby più potente in questo Paese erano gli ebrei” (sic!!!).

Al di là di questi “dettagli”, il pericolo più grande per Anglin rappresentato da una nuova amministrazione repubblicana a guida Trump è la capacità che costui avrebbe di convincere gli americani a combattere una nuova guerra per Israele: la sua figura carismatica potrebbe effettivamente portare tanti giovani ad arruolarsi magari solo per motivi irrazionali, sentimentali o psicologici. Al contrario, una Harris che nonostante la fama di “anti-israeliana” è forse più a destra di Trump sulla questione, nel momento in cui dovesse inevitabilmente spedire le truppe statunitensi in qualche parte del Medio Oriente, riuscirebbe a provocare un moto di ripulsa nella parte opposta che, a parere del militante neonazista, potrebbe effettivamente condurre l’americano medio a interrogarsi sulla cosiddetta Jewish Question (argomento che, come prevedibile, è quello che a lui preme di più).

Un altro pezzo grosso di questa “corrente” è Nicholas J. Fuentes (detto Nick), un commentatore decisamente a destra della destra più estrema ma piuttosto raffinato nelle sue analisi (e che, nonostante sia un paria per i mass media d’oltreoceano, nel novembre 2022 è stato ricevuto da Trump nella sua villa di Mar-a-Lago), il quale negli ultimi mesi ha sempre più accentuato il suo anti-trumpismo, in particolare per la decisione di assumere JD Vance come vice (un nome che a suo parere è la dichiarazione che un eventuale Donald II sarebbe peggiore del primo) oltre che –ça va sans dire– per le posizioni su Israele. Allo stato attuale Fuentes minaccia di mobilitare i suoi seguaci (groypers) per far vincere la Harris negli swing states.

Un dettaglio esilarante in tutta la pantomima è che Fuentes ha commentato in diretta la convention democratica e, pur volendo a tutti i costi parlar bene della Harris, si è trovato prima nominato da Chuck Schumer come “pericoloso antisemita” frequentato da Trump, e poi ha dovuto sorbirsi una carrellata di neri, gattare, trans, oltre che una Michelle Obama scoppiettante e un Bill Clinton marcescente che si è però vantato di esser più giovane di Trump…

In effetti è incredibile la capacità dei dem di far sentire sistematicamente escluso l’americano medio dalla propria propaganda elettorale, che peraltro ora è totalmente incentrata su temi vaghi ed evanescenti (“impolitici” sarebbe una definizione fin troppo generosa), come dimostra l’utilizzo quasi ossessivo dell’espressione joy (la Harris dovrebbe riportare la “gioia” in politica) e un’altrettanta compulsiva ossessione per i diritti delle minoranze, che oscurano in maniera pressoché completa questioni come la guerra, i rapporti con Israele, l’inflazione, la disoccupazione e la sanità. Esprimere il dissenso contro Trump votando la Harris è insomma un’opzione kamikaze della quale i suoi stessi sostenitori sono del resto consapevoli; come ha affermato Fuentes: “Siamo già all’inferno, non importa se a governarci sia un democratico o un repubblicano”.

PS: Aggiungo un breve aggiornamento sulla posizione di Fuentes: proprio mentre scrivevo, il commentatore ha pubblicato un video di riassunto delle sue impressioni sulla convention democratica, nel quale è comunque riuscito a dare una valutazione positiva alla capacità di Harris & co. di fare propaganda verso le fasce elettorali più in bilico.

Secondo Fuentes, i democratici hanno in parte abbandonato la Wokeness per concentrarsi su temi come l’aborto e i sindacati, nella prospettiva, sempre a parere del “frondista”, di aumentare il consenso tra la popolazione bianca maschile della cosiddetta Rust Belt e di quella femminile delle periferie, che potrebbero effettivamente lasciarsi incantare da un messaggio calibrato su qualcosa di concreto come la difesa dei lavoratori o della “salute riproduttiva” (nel caso delle donne, è un contentino a un target che in maggioranza vota sempre democratico).

A mio parere, invece, Fuentes sta esagerando questa componente della convention nella sua prospettiva polemica, per dimostrare che perlomeno i democratici si sforzano di parlare di problemi concreti mentre Trump, o per meglio i suoi consiglieri elettorali, sono totalmente concentrati sull’apparire i più “moderati” possibili e snobbano platealmente il “voto bianco”.

In conclusione, è sempre complesso parlare di talune personalità internettiane poiché tra le loro caratteristiche, oltre all’egocentrismo e al settarismo, c’è una tendenza intrinseca al trolling, cioè all’assumere pose provocatorie anche per il gusto di farlo.

2 thoughts on “La fronda anti-Trump nell’estrema destra americana: Andrew Anglin, Nick Fuentes e i bianchi del Sud

  1. Chiunque dei due vinca in ogni caso noi europei andrà male comunque.

    Trump si sta auto-sabotando da solo la campagna elettorale con la cecità fedeltà all’unica democrazia in Medio Oriente.
    Fino a poco tempo fa credevo che se Trump perdesse potesse partire una guerra civile, ma adesso penso che se perderà forse partiranno qualche scontro etnico ma nessuna guerra civile.
    Con una vittoria della Harris è molto probabile che le proteste dei Black Lives Matter, movimenti woke, transumaniste e O.N.U contro il genocidio in corso in Medio Oriente continuino portando le masse a non voler combattere in Medio Oriente.
    Credo che se vincerà la Harris le cose rimangino così come sono, con un gli U.S.A deboli.

  2. What a mess! Credo che capiremo bene le posizioni di ognuno solo quando si schiereranno sulla Piana di Armageddon…

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