La guerra tra Europa Verde e Africa Nera in nome degli elefanti

L’ultimo capitolo dell’annosa schermaglia “animalista” tra Unione Europa e nazioni africane è rappresentata dalla protesta ufficiale della Namibia nei confronti dell’attuale governo tedesco, che nelle vesti della Ministra “SuperGreen” Steffi Lemke (ovviamente all’Ambiente) ha proposto il divieto di importazione di trofei da caccia, un’iniziativa assunta anche dai belgi e che a quanto pare verrà presto presa in considerazione da altre nazioni europee.

Le autorità del Paese africano, di fronte alla tipica arroganza degli ambientalisti occidentali manifestata dalla Lemke, hanno voluto ricordarle che la caccia è, di fatto, una parte fondamentale della preservazione sia degli elefanti che del loro stesso habitat. Il Ministro dell’Ambiente namibiano, Pohamba Shifeta (di centro-sinistra), ha scritto una lettera di protesta (riportata dalla Bild) nel quale afferma che la caccia avviene nel rispetto di rigide linee guida internazionali, aggiungendo che, se la Germania dovesse rendere ciò “impossibile”, si tratterebbe di “un’ingerenza illegittima, di stampo neocoloniale, contraria al diritto internazionale“.

Il responsabile della più importante associazione per la tutela della natura della Namibia, Maxi Louis (che è anche noto per aver combattutto contro l’Apartheid), afferma che l’atteggiamento di persone come la Lemke, seppur in buona fede, è volto a danneggiare gli interessi africani ed è espressione di una mentalità secondo la quale “noi non sappiamo pensare da soli”, indice di una ricaduta, da parte dei Verdi, nel “colonialismo da XX secolo”, nonché nel puro e semplice razzismo.

La disputa non si limita però alla Namibia. Il Presidente del confinante Botswana, Mokgweetsi Masisi, ha minacciato di inviare 20.000 elefanti in Germania per protestare contro il divieto di importazione di trofei. La linea del governo di Gaborone è anch’essa che gli elefanti siano troppi e che un loro eccesso non regolamentato potrebbe danneggiare, oltre che la vita delle persone, anche la sopravvivenza di altre specie selvatiche protette.

A suffragare tale tesi c’è nientedimeno che… la Commissione Europea, la quale nel 2023 ha attestato che una caccia “regolamentata” può essere essenziale “sia alla conservazione della fauna selvatica sia ai mezzi di sussistenza delle comunità locali che vivono a contatto di essa”.

Il Botswana nel 2019 ha dovuto revocare il divieto di caccia all’elefante (imposto cinque anni prima su pressione internazionale)  proprio per la catastrofe non solo ambientale, ma anche sociale, che l’eccesso di tali animali sta provocando (non va dimenticato che il Botswana vanta la più grande popolazione di elefanti al mondo, cioè 130.000 capi, un terzo del totale del Continente Nero). Lo stesso presidente Masisi, all’epoca in polemica con Londra, ricordò che:

«Si tratta di una questione di buon senso, è una cosa che farebbe qualsiasi britannico se ci fossero migliaia di elefanti nel Regno Unito. Queste critiche sono razziste. Gli ambientalisti occidentali parlano come se qui non ci fossero esseri umani, come se l’Africa fosse solo un grande zoo e gli occidentali i suoi custodi. Dobbiamo proteggere le persone e i loro averi. Siamo uno Stato sovrano e non dobbiamo lasciarci sopraffare dai Paesi occidentali, che parlano come se gli elefanti fossero l’unica cosa importante. Non possiamo continuare a essere spettatori mentre altri prendono decisioni sui nostri elefanti».

Un’altra nazione africana nel mirino degli ambientalisti occidentali, oltre che delle autorità europee, di alcuni divi e influencer internazionali e persino della famiglia reale britannica, è lo Zimbabwe,  che ha di certo metodi spicci nel catturare le bestie, come dimostra un video girato nel 2018 nel Parco nazionale di Hwange, nel quale un gruppo di “cacciatori” africani strappa un cucciolo di elefante dalla madre e dopo averlo intontito con i tranquillanti, lo prende a calci e bastonate.

Il processo di cattura si svolge quasi sempre nello stesso modo: gli addetti generalmente da un elicottero individuano una mandria con esemplari giovani (di età compresa tra i cinque e i sette anni) e li colpiscono con del sedativo, dopodiché vengono lanciati ordigni sul resto del gruppo per dissuaderli dal venire in soccorso. Quando la mandria si disperde, una squadra di terra si avvicina a piedi agli elefanti sedati, li raggruppa e li trascina su rimorchi, per poi portarli in una tenuta da cui verranno poi inviati all’estero.

Negli ultimi anni, l’ex colonia britannica ha guadagnato 2,2 milioni di sterline dalla vendita di 97 elefanti -tra cui quello di cui sopra- a zoo, parchi e altre strutture turistiche in Cina e a Dubai. Le autorità del Paese si sono dette pronte a  “vendere le bestie a chiunque”. Con un guadagno di circa 34.000 sterline a esemplare, il commercio garantisce entrate non indifferenti a una nazione dove un terzo della popolazione vive di sussistenza, la siccità è perenne e l’inflazione è tra le più alte al mondo.

Come riporta un articolo del Daily Mail (Why shouldn’t we sell our elephants to China?, 14 agosto 2019), il Presidente dell’Autorità per la gestione dei parchi e della fauna selvatica dello Zimbabwe, Fulton Mangwanya, ha dichiarato:

«Stiamo lottando con le unghie e coi denti per il diritto di commerciare la nostra fauna selvatica. Il principale problema sono gli elefanti, sui quali sembra non possiamo rivendicare pieno diritto».

Un altro rappresentante dello stesso ente, Tinashe Farawo, ha aggiunto: «Dobbiamo fronteggiare un numero abnorme di elefanti. Ne abbiamo 84.000, ma i nostri parchi possono accoglierne solo 50.000. Quindi vendiamo quelli in eccesso per prenderci cura dei restanti esemplari». Egli sostiene che il numero di elefanti sia fuori controllo: 200 persone sono morte per attacchi negli ultimi anni e 17 milioni di acri di colture sono stati devastati dalle bestie.

A livello internazionale, a regolare la compravendita di animali selvatici è la cosiddetta Convenzione di Washington, nota come CITES (Convention on International Trade of Endangered Species), nei confronti della quale proprio nazioni come Zimbabwe, Botswana e Namibia stanno operando una sorta di lobbismo a favore dei propri interessi, contando in particolare sui sensi di colpa con cui le autorità occidentali si autoflagellano.

Il governo di Harare, per esempio, rivendica il diritto di vendere le enormi scorte di avorio risultanti dalla morte naturale degli animali, stimando che ciò potrebbe fruttare circa 300 milioni di sterline da spendere nei prossimi decenni per la gestione dei parchi naturali nazionali del Paese e assistere le comunità minacciate dagli elefanti.

Il commercio di avorio da parte delle nazioni africane è un’altra questione controversa. Quarant’anni fa c’era circa un milione di elefanti in Africa, ma gli esemplari sono ora scesi a poco più di 400.000. Negli anni ’80 i bracconieri massacrarono metà della popolazione del continente, per vendere l’avorio sui mercati asiatici, in particolare quello cinese. La Cina è da secoli il più grande consumatore mondiale di avorio, con i quali fabbrica sigilli, bacchette, statuette e gioielli.

Nel 1989 la CITES ha concordato una moratoria sulle vendite internazionali di avorio, ponendo fine al commercio legale di zanne. Sebbene la stessa Pechino nel 2018 abbia ceduto alle pressioni internazionali vietando il commercio interno di quello che gli africani chiamano “oro bianco”, altri Paesi asiatici (come Thailandia, Laos e Vietnam) continuano ad autorizzare la compravendita a fronte della domanda crescente.

Gli ambientalisti sostengono che se la CITES cederà alle richieste dello Zimbabwe di vendere le sue preziose riserve di avorio, tale decisione avrà un “effetto catastrofico su tutta l’Africa”, permettendo alle zanne ottenute in maniera illegale di giungere più facilmente sul mercato. L’Interpol afferma che i soldi guadagnati dal traffico d’avorio si avvicinano alle fortune fatte dal traffico di droga, armi e esseri umani.

Il principe William è uno dei sostenitori più importanti dei diritti degli elefanti africani. Non a caso è Presidente dell’associazione britannica Tusk Trust, che fa campagne per salvaguardare la fauna selvatica in Africa e reprimere il commercio di avorio. Eppure ci sono due facce della medaglia in tale vicenda.

In alcune parti dell’Africa dove il numero di elefanti è in aumento, l’animale è infatti detestato dalle popolazioni locali. Il Botswana è un caso esemplare: secondo le testimonianze riportate ancora dal Daily Mail, un agricoltore locale di 78 anni, è stato travolto e ucciso da un elefante che vagava per la sua fattoria a Tutume. Un suo amico che ha assistito alla scena ha affermato che: «Gli elefanti non sono buoni, devastano i campi e i pascoli. Questo qui aveva distrutto il sistema di irrigazione che avevamo appena costruito. Se tornasse, come potremmo difenderci?».

Dall’altra parte del Paese, nel delta dell’Okavango, cuore turistico della fauna selvatica del Botswana, un trentottenne che stava andando a prendere una mucca da macellare per il funerale di suo fratello minore, è stato schiacciato da un elefante. Dopo questa doppia tragedia, il membro della famiglia più anziano, lo zio David Sebudubudu, ha dichiarato: «Se avessi i soldi, comprerei quattro, cinque o otto fucili e sterminerei quell’elefante. Non si può paragonare la vita di un essere umano con quella di un elefante».

Anche i più piccoli non vengono risparmiati. Un ragazzino di dieci anni, Ontebaganye Ngoma, è sopravvissuto a un attacco nel villaggio di Gumare. Un pomeriggio lui e sua nonna stavano cercando legna da ardere, quando un elefante comparso all’improvviso ha afferrato il bambino con la proboscide e gli ha rotto una gamba. I medici dell’ospedale locale affermano che nella zona sono numerosi i bambini vittime di questo tipo di incidenti.

L’ondata di attacchi ai villaggi africani ha portato ancora Masisi ad ammonire duramente gli ambientalisti occidentali:

«Queste persone pensano che gli elefanti siano animali domestici. Mi sorprende quando dai loro salotti ci danno lezioni su una specie con cui non hanno mai convissuto».


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