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La “Jihad Connection” terrorizza l’Europa

(fonte: “Daily Mail“)

Ragionando esclusivamente sugli elementi messi a disposizione dalla cronaca (anche da quella che si è appena “incubata” in storia), si ha motivo di credere che l’attentato di Barcellona del 17 agosto scorso rappresenti un salto di qualità della strategia terroristica in Europa: esso appare come una specie di “saldatura” tra quello che potremmo definire il vetero-jihadismo(metodico, paramilitare, dottrinario) e il neo-jihadismo (improvvisato, situazionale, “mediatico”) che domina l’attuale “stagione del terrore”.

Tuttavia, prima di proseguire, vorrei che fosse chiaro un punto: alla base delle considerazioni che seguiranno c’è un rifiuto radicale di qualsiasi prospettiva “complottista”. Credo infatti che tale impostazione (ormai egemonica nell’ambito della cosiddetta “informazione alternativa”) non porti da nessuna parte, nemmeno dal punto di vista “pratico”; poiché se il complottismo consentisse di prevenire anche solo un attentato, potrebbe essere considerato un’opzione valutabile. Al contrario, nessuno dei fantasmagorici teoremi costruiti negli ultimi anni ha consentito di andare oltre un estenuante post hoc.

In verità sembra che questa forma mentis sia in parte sintomatica della società in cui viviamo: a parziale giustificazione di essa, lo storico delle religioni Giovanni Filoramo afferma che «la tentazione gnostica di un sapere assoluto e totale, liberante dalle angosce legati ai saperi parziali e conflittuali, è inscritta in certo senso nella logica stessa del nostro sistema culturale» (Il risveglio della gnosi, 1990, p. 15).

Limitiamoci allora a utilizzare il nostro “sapere parziale” per tentare di capire qualcosa della piccola apocalisse che obiettivamente ci coinvolge tutti; solamente per questo, dovrebbe essere consentito a ognuno di esprimere il proprio parere, almeno per riconoscere un residuo di “interesse pubblico” al di là di tutte le divisioni ideologiche, politiche, etiche, religiose, eccetera.

In primo luogo, dobbiamo osservare che in Spagna non è “andato in scena” l’attentato progettato: quello è stato vanificato dall’incompetenza degli appartenenti alla cellula, che si sono fatti saltare in aria pochi giorni prima nella villetta a 200 km da Barcellona in cui avevano stipato un centinaio di bombole di gas. Il piano originale era un “11 settembre europeo”, con la Sagrada Familia al posto delle Twin Towers: in tal caso si percepisce sin da subito la matrice vetero-jihadista, cioè la stessa mentalità che ispirò gli attacchi di New York, Madrid e Londra nei primi anni del nostro secolo. Una volta però fallito il grande attacco, ecco che le seconde linee (la “carne da cannone” neo-jihadista) hanno agito nelle modalità rudimentali che abbiamo sfortunatamente imparato a riconoscere: camion sulla folla e coltellate ai passanti.

Nonostante i giovani marocchini di Ripoll fossero così impreparati dal punto di vista logistico da non essere nemmeno in grado di fabbricare delle cinture esplosive, essi, rispetto ai terroristi di Parigi, Bruxelles o Londra (in generale da considerare “stupidi come un posacenere vuoto”, per usare la formula con cui l’avvocato di di Salah Abdeslam ha descritto il suo assistito), sono riusciti a far entrare in contatto due strategie parallele quali quella qaedista e quella dell’Isis. Il loro reclutatore, l’imam Abdelbaki Es Satty (morto nell’esplosione di Alcanar) era per l’appunto uno della “vecchia guardia” (da decenni incardinata sull’asse Marocco-Spagna-Belgio), di quelli che tenevano a dare alla propria militanza una coloritura più politico-religiosa che mediatico-spettacolare. Anche l’attentato che doveva verificarsi a Barcellona, aveva quindi tutti i crismi del vetero-jihadismo: un’azione “esemplare”, da organizzare in tempi lunghissimi, senza lasciare nulla al caso.

Soffermandoci su quanto è successo, siamo costretti a rilevare che le particolari circostanze “geografiche” e “politiche” (non diciamo “geopolitiche” perché le questioni restano distinte) hanno influito negativamente sugli eventi: è indubbio che lo sciovinismo catalano abbia pregiudicato le indagini sia prima l’attentato che durante la sua esecuzione (e forse persino dopo). L’autorità locale, in base al principio che “la Catalogna può farcela da sola”, ha di fatto preferito non avvertire quella centrale della colossale esplosione avvenuta nella villetta di Alcanar, archiviando il tutto come semplice “fuga di gas”. Per le stesse ragioni (e in concomitanza del referendum indipendentista), la Guardia Civil è stata emarginata in favore dei Mossos d’Esquadra, i quali hanno letteralmente sterminato gli attentatori fuggiaschi col plauso dei media e dei politici locali.

Al di là però delle responsabilità particolari, allargando la prospettiva sulla Spagna intera si evince come questa nazione intrattenga un rapporto quantomeno “controverso” col terrorismo islamico: per decenni essa è stata un crocevia internazionale di jihadisti, che hanno trovato modo di camuffare i propri passaggi al riparo delle centinaia di associazioni culturali nate nel mito di al-Andalus.

In realtà è tutto l’islam spagnolo ad apparire “pittoresco” e a tratti surreale, diviso tra irredentismo andaluso e spiritualità sufi, per giunta animato da personaggi del calibro di Roger Garaudy (tra i fondatori dell’Università Islamica di Cordova). Tale fenomeno ha peraltro dato vita a una vasta letteratura che, seppur di stampo “occidentalista” (e ormai datata, essendo nata sulla scia degli attentati del 2004), comprende titoli interessanti come La España convertida al islam di Rosa María Rodríguez Magda e La Yihad en España. La obsesión por reconquistar Al-Ándalus di Gustavo de Arístegui.

La Spagna è da sempre considerata un “santuario” dei vetero-jihadisti, i quali solitamente sono interessati a colpirla quando devono dare un segnale forte: nel corso degli anni da quelle parti sono passati militanti di altissimo livello, come lo sceicco palestinese Abdullah al-Azzam (tra i fondatori di al-Qaeda), il siriano Abu Dahdah (un fiancheggiatore di Bin Laden, arrestato dopo l’11 settembre ma libero dal 2013), l’algerino Ahmed Brahim (finanziatore di al-Qaeda e coinvolto nell’organizzazione degli attentati alle ambasciate americane di Kenya e Tanzania del 1998), per non dire del famigerato Mohamed Atta (recatosi in Catalogna nel luglio del 2001 per un rapido summit). Tra gli altri episodi degni di nota, ricordiamo un arresto di massa di militanti del GIA algerino nel 1997.

Il fatto che sia stata scelta proprio Barcellona, al culmine di una serie di attacchi che finora aveva lasciato indenne la penisola iberica, non sembra casuale; potrebbe anzi rappresentare quella “evoluzione” di cui si parlava all’inizio. Si può ipotizzare che vetero- e neo-jihadisti abbiano voluto “venirsi incontro” scegliendo un obiettivo in grado di mettere d’accordo entrambi, sia per la natura di luogo rivendicato dal terrorismo islamico “tradizionale”, sia per la rilevanza “mediatica” che interessa enormemente l’improvvisata manovalanza affiliata all’Isis.

Non si sa bene se tale alleanza sia già un dato di fatto, tuttavia ciò che preoccupa è la sottovalutazione dei sintomi da parte degli analisti: sembra che essi siano già pronti a “gridare vittoria”, cioè a identificare nella rincorsa del “gesto eclatante” un segno del “declino dell’Isis”. Viceversa, è proprio questo che dovrebbe preoccupare sopra ogni cosa: la possibilità che le capacità tecniche e militari dei vetero-jihadisti possano aumentare le potenzialità distruttive della massa di spiantati rimasti senza guida dopo la crisi del “califfato” siro-iracheno.

C’è un altro aspetto, a mio parere ugualmente trascurato, che caratterizza la nuova ondata di terrore: chi manovra questi neo-jihadisti (perlopiù teppistelli di periferia dai curricoli criminali di infimo livello), sembra avere una profonda consapevolezza dei meccanismi della “macchina mediatica” occidentale. Non è un caso che finora i terroristi in Europa abbiano evitato, a differenza di quanto fanno in Africa o Medio Oriente, di attaccare luoghi di culto o sedi di partito (se non in episodi sui quali il marchio “Isis” è stato apposto dopo tardiva rivendicazione). Gli unici “spazi sacri” che interessano ai neo-jihadisti infatti non sono né religiosi, né politici e nemmeno finanziari, ma potremmo dire “ludici”: le ramblas, i foyer e i café. Non penso che i terroristi e i loro mandanti scelgano gli obiettivi in base alla familiarità, per invidia sociale o motivazioni religiose (quelle sono senza ombra di dubbio solo un pretesto): credo invece che lo scopo principale sia proprio quello di toccare i “nervi scoperti” del sistema mediatico.

Pensiamo, ad esempio, se un gruppo di attentatori assaltasse un monastero e trucidasse tutte le monache al suo interno: probabilmente l’unica reazione del mainstream (prima di insabbiare la notizia) sarebbe quella di domandarsi se il Papa avrebbe concesso alle suore di abortire nel caso fossero sopravvissute (a dimostrazione indiretta di ciò, il fatto che nessuno sia in grado di ricordare il nome del parroco sgozzato in Francia nel 2016). Discorso analogo per le sinagoghe: un attacco agli ebrei verrebbe fino all’ultimo imputato a sedicenti “neonazisti”, per poi essere ricondotto al conflitto israelo-palestinese e svuotato del suo significato originario.

L’atteggiamento dei grandi media per certi versi “obbliga” il neo-jihadismo a scegliere obiettivi che non offrano alcun alibi alla censura (soprattutto a quella perpetrata in nome del “politicamente corretto”). È forse questo l’elemento decisivo che i superstiti dell’Isis potrebbero apportare alle strategie di al-Qaeda, le quali nel panorama che va a delinearsi sembrano ancora abbeverarsi al Catechismo del rivoluzionario di Nečaev, nonché a quell’idea che il terrorismo abbia qualcosa a che fare con la “giustizia” e dunque rappresenti un passaggio obbligato per giungere alla società perfetta.

Perciò è come se ci trovassimo di fronte a un bivio: possiamo sperare, come la maggior parte degli analisti e politologi, che l’ultimo attentato sia davvero l’ultimo (almeno fino al prossimo); oppure aspettarci scenari tremendi in cui l’esperienza militare e la competenza tecnica e strategica dei vetero-jihadisti fornisca il supporto materiale che manca ai neo-jihadisti per far tabula rasa della nostra civiltà.

[Chiedo venia per il titolo “ad effetto” del post, ma è un tributo alla spy fiction a cui sono molto appassionato e che purtroppo sta lentamente declinando, anche a causa dell’assunto che “meno si parla di terrorismo meglio è”; penso invece che andrebbe rilanciato, seguendo l’esempio di serie televisive come Homeland, magari in forma meno cervellotica e più “agonistica”]

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