La letteratura assadista in Italia

È da tempo che avrei voluto “stroncare” il volume di Sebastiano Caputo, Alle porte di Damasco. Viaggio nella Siria che resiste (pubblicato prima da Proudhon nel 2015 e poi da Gog nel 2017), tuttavia l’aggressione da parte dei “collettivi” avvenuta qualche mese fa a Bologna per impedirne la presentazione (nulla di che, sia chiaro, perché è noto che senza il sostegno dei servizi segreti di mezzo mondo le zekke non sarebbero capaci nemmeno di farci un graffio) a lungo mi ha dissuaso dal farlo, sia per un senso di solidarietà nei confronti dell’Autore che per un ideale difesa della libertà di parola.

Tuttavia, ripensandoci bene, farei un torto allo stesso Caputo se non dicessi apertamente ciò che penso, non solo perché appunto la libertà d’espressione deve valere per tutti (basta esercitarla senza picchetti e intimidazioni, e magari facendosi una doccia ogni tanto), ma soprattutto perché è scontato che le zekkone non abbiano letto neppure una riga di Alle porte di Damasco. Dunque si tratta davvero di tutta un’altra storia.

Vediamo perciò di esporre finalmente le perplessità a lungo covate: in primo luogo, il volume non mantiene la promessa di essere un puro e semplice reportage. Sono infatti soltanto i primi capitoli a offrire un ritratto vivo della Siria in guerra: il resto non è che una tediosa raccolta di elucubrazioni e invettive che lascia il tempo che trova. A questo punto sarebbe stato meglio “tirare” la parte “viva” del libro fino all’estremo, in modo da consentire alle testimonianze “sul campo” di giustificare il tono “partigiano” (e a tratti apologetico) che Caputo si concede nei confronti di Assad: perché, essendo l’inviato di guerra un po’ più che un antropologo e un po’ meno che uno storico, sarebbe stato comprensibile il prevalere della dimensione umana su quella teorica, nonché il sorgere di un senso di “appartenenza” dalle amicizie con sfollati, soldati e “salvati”.

Purtroppo invece le tirate ideologiche tendono sempre più a staccarsi dalla realtà e a trasformarsi in una difesa per partito preso di Assad (e ovviamente di Putin). A un’impostazione fortemente inquinata dai pregiudizi dell’Autore si aggiunge per giunta un taglio un po’ troppo célinien, che nei passaggi più “infervorati” scade direttamente nel malapartismo (il peccato originale di qualsiasi letteratura di destra). È disdicevole, per fare un solo esempio, che di un soldato dell’esercito regolare siriano si dica che “ha rifiutato una vita piccolo-borghese”: eppure anche questo sarebbe perdonabile, se confinato nel puro ambito della narrativa.

L’ingenuità e l’esaltazione finiscono però per intaccare il momento dell’analisi, oscenamente decorato con le tinte di un romanticismo bellico d’antan. L’intervento russo in Siria viene edulcorato persino a livello lessicale: il “dispositivo militare” di Putin “protegge”, “mette al sicuro”, “salva”, “sconfigge il male”, eccetera eccetera. È solo e soltanto “l’Occidente” che porta il male (o “Il Male”) nel mondo, facendo scempio di civili, agendo esclusivamente per i propri interessi, non dimostrando alcun tipo di eroismo ma solo spregiudicatezza, eccetera eccetera.

Insomma, due torti non fanno una ragione: contrapponendo le proprie “favole a rovescio” a quelle mainstream, non si rende comunque onore alla verità. Che si tratti di errori opposti ma complementari è dimostrato anche semplicemente dal fatto che, dopo aver sparato a zero sul “Corriere” per pagine e pagine, Caputo di punto in bianco torni ad accreditare il foglio milanese come “fonte autorevole” nel momento in cui gli è utile per dar addosso a Erdoğan. Quindi, che il “sultano del terzo millennio” si sia fatto l’auto-golpe è una “tesi valida”, in quanto «sostenuta da molte testate internazionali, tra cui il “Corriere della Sera”» (p. 115). Apperò! Allora dovrà esser altrettanto vero che Putin stia spiando l’Unione Europa con chiavette usb e progettando armi psicotroniche per controllare le nostre menti, perché il “Corriere” ha scritto pure questo…

Ecco, è tutto un po’ così. Tralasciamo la mancanza di un editing decente (nomi e toponimi arabi sono traslitterati in decine di modi diversi, come Deir el-Zor che diventa Deir ez-Zor, Deir Ezzor, Deir al Zor ecc..), nonché la natura “raffazzonata” del volume che si evince dalle innumerevoli ripetizioni (la tragica fine del fratello di Assad è raccontata negli stessi termini in almeno tre occasioni), e veniamo infine al punto (che poi è sempre lo stesso): per quanto la “propaganda” possa farci indignare, la soluzione non sta nell’assumere una posa da “bastian contrario” semplicemente ribaltando le fallacie dei propri avversari.

Detto ciò, sarebbe tuttavia disonesto imputare all’Autore una sola delle mancanze fin qui evidenziate, perché il problema semmai è che il “compito” svolto da Caputo, sotto un certo punto di vista, è eccellente: egli ha infatti rispettato tutti i canoni e i dogmi della “controinformazione” sclerotizzatisi negli ultimi anni (o decenni), praticando tra le altre cose quella esaltazione (ai limiti dell’esotismo) per tutto ciò che non è “Occidente”.

Uno dei “venerati maestri” del genere, abilissimo nel muoversi da un estremo all’altro senza mai subire una sola contestazione, è Alberto Negri, il quale non a caso firma la prefazione del libro. L’infatuazione di una certa “area” per questo araldo della turcofobia ha trasformato le analisi geopolitiche da essa scaturite in una commedia degli equivoci. Non vorrei scendere in polemiche personali ma, nel caso particolare, non posso fare a meno di sottolineare che quelli che vorrebbero impedire a Caputo di parlare sono gli stessi che pendono letteralmente dalle labbra del “Maestro”. In pratica, al buon Sebastiano sarebbe forse bastato contrapporre ai suoi “pelosi” (lato sensu) contestatori la comune origine “negriana” delle proprie analisi (una declinata in senso filo-curdo e l’altra assadista), per metterli immediatamente in difficoltà (ma chissà che, proprio per la fragilità dei loro postulati geopolitici non si siano già messi in difficoltà da soli: ora che il leoncino di Damasco ha deciso di servirsi dei curdi come carne da cannone, assisteremo probabilmente al rapido scemare dell’entusiasmo dei nostri kobanisti/rojavisti?).

Non vorrei tuttavia che, in conclusione, il mio approccio apparisse distruttivo e le mie critiche eccessivamente severe: come ho detto, le parti “martirologiche” (se così posso definirle, considerando le stimolanti considerazioni sulla polisemia del termine “martire” nel mondo islamico espresse nel volume) sono eccellenti; perciò credo che l’Autore dovrebbe ripartire proprio da queste, “resettando” con l’esperienza tutte le incrostazioni ideologiche che ne appesantiscono lo stile e la scrittura. La vera destra, in fondo, può ancora permettersi l’azione come fondazione di senso, accettando la brutalità del politico senza giustificarla in alcun modo (se non, forse, poeticamente).

C’è infatti più verità nel vaticino espresso da un vecchio prete di Maloula (riportato da Gian Micalessin nel contributo finale al libro), che nel continuo piagnisteo sulla “bontà” di Assad e sulla “cattiveria” di chiunque gli si oppone. È da qui che si dovrebbe cominciare a parlare, oppure a tacere:

«Noi cristiani di Siria probabilmente moriremo tutti, ma almeno sappiamo chi è il nemico. Dopo di noi toccherà a voi europei, ma a differenza di noi non saprete chi vi vuole morti né, tanto meno, il perché»

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