La mascolinità tossica è un prodotto della sottocultura yankee

Avete presente quel film di Clint Eastwood, Gran Torino? È la storia di un americano di origine polacca, reduce della guerra di Corea, che nonostante disprezzi gli immigrati è talmente indignato dalla maleducazione dei suoi nipoti da stringere amicizia con i vicini vietnamiti e salvare uno di essi, il giovane Thao, dalla tentazione del gangsterismo indirizzando sulla retta via (lavoro e “mascolinità positiva”), giungendo infine a vendicare l’insulto alla di lui sorella facendosi ammazzare da altri delinquenti vietnamiti che l’hanno stuprata, e consentendo alla gente del quartiere terrorizzata dalla gang di denunciarli e farli arrestare.

Nel 2008, anno dell’uscita, la pellicola mi aveva colpito per l’originalità della trama rispetto al solito sparatutto americano, dove la controfigura del Liam Neeson di turno uccide tutti i cattivoni e poi viene celebrato come un monaco guerriero. Clint Eastwood infatti, provocando i vandali e facendosi ammazzare, riporta la vendetta alla dimensione della giustizia e scalfisce così il mito del “gladiatore” solitario che riesce magicamente a schivare le raffiche di mitra e ad abbattere i nemici come se fossero calamite a cui lanciare palline d’acciaio.

Tuttavia, rivendendolo l’anno scorso (su Rete 4!), mi sono reso conto dei numerosi limiti di questo film, che probabilmente avevo interpretato in maniera positiva solo perché tre lustri fa il mainstream era la sagra della piddineria (non che oggi sia cambiato un granché, ma qualche spiraglio si intravede, più a livello politico -in senso lato- che artistico).

In primo luogo, lo stesso Eastwood non è immune, anche per i ruoli che ha interpretato nella sua lunga carriera, dall’immaginario boomer secondo il quale un tizio bianco che sparacchia a dei negri a caso dovrebbe essere idolatrato come un condottiero rinascimentale (la scena degli spooks è basata, lo concedo, ma alla fine il buon Clint è sempre il caro vecchio Ispettore Callaghan, seppur col pannolone) e all’umiliazione dei figli “fannulloni”.

Inoltre, la trama contiene qualche goccia di veleno che filtra dal disprezzo con cui il “patriarca” si rapporta alla sua progenie, rappresentata come una ridda di bamboccioni viziati: altro mito boomer che si manifesta, tra le altre cose, nell’avversione a quello che loro definiscono “immigrazione selvaggia” al contempo accompagnata da una idealizzazione delle virtù del lavoratore straniero che si rimbocca le maniche e si dà da fare (finché accetta di essere pagato di meno, e in nero).

Riflettendo ulteriormente sull’opera, c’è però un altro elemento forse ancor più “tossico” dei precedenti, e cioè la rappresentazione della “mascolinità positiva” come un concentrato di scontrosità, isteria, rabbia, irascibilità e maleducazione. Tale paradigma, che innerva tutto il cinema americano, lo si evince plasticamente nella scena in cui Eastwood porta il giovane vietnamita dal barbiere per insegnargli come ci si parla tra uomini: il ragazzo non capisce che tipo di registro deve adottare e si ritrova con un fucile puntato in faccia.

Starò invecchiando, ma questa scenetta dalla mia prospettiva corrente trasuda cringe da ogni secondo. Eppure è questa forma di “interazione” che è stata propinata ai maschi di almeno due generazioni: il “duro” deve essere volgare e bizzoso e deve rigorosamente scoreggiare in pubblico (anche a livello metaforico) o dar di matto a fasi alterne per far capire chi è che comanda.

Il paradigma traspare da qualsiasi carattere hollywoodiano, a partire dai modelli “classici” (che almeno potevano permettersi di atteggiarsi in tal guisa considerando il contesto del primo dopoguerra) fino alla trasposizione nella figura del “brigante romantico” (cioè il conferimento di tali inclinazioni a categorie di “irregolari” quali: lo sbirro radiato che vuole rifarsi una reputazione, il boss italo-americano, il nero del ghetto, il veterano alcolizzato o persino la “donna rambo”) e alle sue degenerazioni estreme (un esempio terminale è l’insopportabile Jim Carrey, che non a caso viene considerato alla stregua di un serial killer).

Nessuno si rende conto, specialmente tra conservatori e nostalgici del “buon tempo antico”, che questa concezione del maschile è un sottoprodotto dell’americanismo e delle sue “narrazioni” artefatte (il padre pellegrino, il pionere, il cowboy, il self-made man, il capitano d’industria ecc…), la quale influenza anche ciò che oltreoceano viene considerata “alta letteratura” (il caso più clamoroso è l’aspirante femminicida Norman Mailer).

A mio parere si può affermare senza tema che l’Homo Americanus è l’esatta antitesi di quello che la prospettiva tradizionale considera un “vero uomo”. Il coraggio, infatti, non va confuso con l’incoscienza e la spregiudicatezza: uno spilungone con una rivoltella scarica che affronta un esercito di spacciatori armati fino ai denti non sta incarnando la fortitudo, ma una fantasia (ai limiti del porno) espressione di un individualismo malato e di una schiavitù alle proprie passioni che parimenti offusca la temperantia e oltraggia la prudentia.

Non è un caso che a questa parodia della mascolinità sia poi succeduta un’altra parodia di uomo, se non altro più esplicita, all’insegna dell’effeminatezza e del disfattismo: il vero dramma è che, nonostante ci sia una propaganda delirante in favore dell’omosessualità, siamo giunti al punto in cui comportarsi in maniera minimamente civile diviene di per sé espressione di froceria. Non più sospetta e ostracizzata s’intende, anzi ben accetta e incentivata, ma relegata oscenamente nelle antitesi del maschile.

Purtroppo vedo che tale distorsione ha intaccato persino la normale convivenza e perciò anche l’ultimo degli sfigati si sente in dovere di comportarsi come una bestia, dal semplice rapportarsi (come in Gran Torino) a un parrucchiere a suon di insulti e insolenze, al ruttare in pubblico senza che nessun “frocio” si senta in dovere di ripenderlo, per non dire di quello che succede quando viene accesa la videocamera di un telefonino.

Contro tutto ciò, mi trovo costretto a citare il capitolo dalle Lezioni per giovani samurai di Yukio Mishima, quello sull’Etichetta, la reishiki (礼式). Nonostante lo stesso Mishima fosse obiettivamente succube dei paradigmi testé denunciati (giungendo addirittura ad incarnare entrambe le facce della medaglia, in quanto fanatico adoratore della prestanza fisica e della virilità estroversa e all’occorrenza virulento pederasta e femminiello da balera), trovo che riesca ugualmente a esprimere un concetto valido nel momento in cui ci sono paradigmi più forti, derivati dalla cultura nipponica, a indirizzarlo. Questo è ciò che scrive nel suo “manifesto”:

«Si dice che il Kendō inizi e finisca con un inchino, ma dopo il primo inchino, l’unico obiettivo è colpire l’avversario. Ciò simboleggia egregiamente la realtà dell’universo virile. Prima del combattimento è necessario osservare una determinata etichetta che rappresenta la premessa dello stesso combattimento.
Ma cosa è più importante: l’etichetta o il combattimento?
Secondo i principi del Kendō prevale la cortesia, l’etichetta. Per quale motivo? Fin dai tempi più antichi, come appare chiaro nei tornei dei cavalieri, è l’etichetta a regolare le contese nell’universo virile. Nell’etichetta è naturalmente insito un codice morale, che si esprime anche nelle norme sportive. Una disciplina sportiva praticata senza il rispetto per le norme non è più tale, diviene qualcosa di spregevole: violarne il codice conduce alla disfatta.
Le buone maniere non presuppongono tuttavia ubbidienza all’altrui volontà. Sebbene l’etichetta sia per un uomo una premessa essenziale, cui deve assolutamente assoggettarsi, si è diffusa ai giorni nostri la strana credenza che un atteggiamento sincero e spontaneo possa giungere più direttamente all’animo di chi ci ascolta.
Soprattutto colui che è ambizioso è invece tenuto a rispettare l’etichetta, più di chiunque altro; se lo farà, potrà persino esibirsi danzando nudo mentre beve il sakè, essendosi ormai conquistata la fiducia dell’interlocutore che giudicherà la sua danza come un atto estremamente spontaneo e rassicurante. Questa tattica non funzionerebbe affatto se egli fosse solito comportarsi con sregolatezza.
È per questo che esiste un’etichetta, capace di mantenere la dignità dell’uomo, ed è solo lasciando trasparire da essa la naturalezza, l’immediata spontaneità della natura umana, che si accresce il proprio potere sul prossimo […]».

Ecco, io trovo che questo messaggio sia stato egregiamente recepito da molti dei miei interlocutori, i quali, nonostante si trovino a interagire con una “maschera” (che non ha però nulla da “confessare”, a differenza di Yukio che si faceva slargare il buchio), cioè con uno che conoscono solo tramite lo pseudonimo “Mister Totalitarismo” (impossibile trovare un moniker più ridicolo) non si permettono mai di indulgere all’americanismo nel momento in cui devono commentare o contattarmi. Obiettivamente ho il pubblico migliore che si possa immaginare.

Detto ciò, è doveroso concludere con qualche nota sparsa sulla mascolinità tossica, ma non è che ci sia poi molto da dire: probabilmente il motivo per cui dobbiamo sorbirci la quotidiana ramanzina mediatica è perché le donne hanno visto troppi film (peraltro, come attestato diversi studi statistici, sono i maschietti gli unici appassionati, per giunta disinteressati, di cinema d’autore, mentre le femminucce accorrono come mosche a posarsi sull’ultima cagata di cane americano) e noi non possiamo che reagire a seconda degli schemi su cui i nostri cervelli hanno dovuto modellarsi.

Ci sono in ogni caso diverse possibilità di disintossicarsi: noi avremmo tutta quella roba antica, millenni di cultura eccetera, però anche gli americani sono talmente desiderosi di “mettere sul mercato” qualsiasi cosa che, accidentalmente, per ogni veleno creano un antidoto. Per esempio, il meme no homo è un perfetto εἰκασμός di quanto si è finora discusso. Perciò vi voglio bene, no homo.

AVVERTENZA (compare in ogni pagina, non allarmatevi): dietro lo pseudonimo Mister Totalitarismo non si nasconde nessun personaggio particolare, dunque accontentatevi di giudicarmi solo per ciò che scrivo. Per visualizzare i commenti, cliccare "Lascia un commento" in fondo all'articolo. Il sito contiene link di affiliazione dai quali traggo una quota dei ricavi. Se volete fare una donazione: paypal.me/apocalisse. Per contatti bravomisterthot@gmail.com.

10 thoughts on “La mascolinità tossica è un prodotto della sottocultura yankee

  1. Il recupero della romanità è miseramente fallito col fascismo. E contro l’americanismo ha scritto Tarchi oltre vent’anni fa: insegna al PD ateneo di Firenze.

  2. Le parole di Mishima mi hanno fatto tornare in mente il film di Powell e Pressburger “Duello a Berlino”, del 1943. L’edizione italiana, giunta da noi sulle punte delle baionette dei “liberatori”, è stata martoriata da tagli finalizzati a impedire al beota spettatore italiano di notare invece le critiche tanto sottili quanto feroci della ben più lunga versione originale (intitolata “The Life and Death of Colonel Blimp”) alla mancanza di scrupoli presente anche tra gli Alleati nella condotta della guerra, tali da far adombrare una certa equivalenza morale (da cui mi dissocio, appuntato Gargiulo) tra questi e l’Asse (del male assoluto, appuntato Gargiulo, metta a verbale eh). Un film dalla splendida fotografia, come tutte le opere del duo, molto ben recitato, ma per forza da vedere in lingua originale o almeno integrando la parte doppiata con gli ampi spezzoni in inglese che sono stati tagliati.

    1. certo la mancanza di scrupoli degli alleati
      certo le baionette dei suddetti alleati
      certo l’equivalenza morale dei succitati
      ma Pressburger era un ebreo ungherese scampato alle leggi razzaili: fine della storia triste

  3. Due argomenti da questo eccezionale articolo:

    1) Hai perfettamente ragione sulla “mascolinità tossica”, il modo di rapportarsi tra uomini e financo da ragazzini (fid dalle medie) è qualcosa di deleterio ed è stato presumibilmente creato dal cinema americano. Negli anni 2000 (proprio quelli antecedenti all’avanzata degli arcobaleni) questa cosa era infinitamente più pressante di oggi e viene da pensare che sia stata in parte causa, paradossalmente, della mancata resistenza proprio alla setta arcobaleno.

    2) Gran Torino lo considero comunque un capolavoro (anzi, l’unico capolavoro cinematografico del Terzo Millennio, a parte la trilogia del Signore degli Anelli), al netto di quella scena abbastanza imbarazzante dal barbiere. I temi trattati nel film sono tantissimi, ogni volta che lo riguardo ne emergono di nuovi: hai notato per esempio che non c’è neanche un WASP? Quello è un film sull’America cattolica (i bianchi sono irlandesi, italiani e polacchi) che sta venendo cancellata dall’immigrazione.

  4. Mi viene da dire che la “mascolinità tossica” è proprio un’etichetta, solo che è generazionale e non profondamente radicata, perciò già “cringes” pochi anni dopo.

  5. Commento scritto col cuore che sanguina, da uno che amava Clint fin dagli anni 80: se non avesse mollato, in modo contorto e peculiare, per carità, e non fosse diventato funzionale al mainstream oggi non lo troverei in 36 feed di FB… Probabilmente copre una nicchia di mild-oppositor che si accontenta di poco…

  6. Alla fine sarà anche perchè Eastwood mi piace…il film è l’ho visto volentieri…io praticamente ho visto tutto di Eastwood…in effetti non ho niente di trascendale da ricordare ne come attore ..da Leone in poi…ne come regista…però …gli Spietati…mi ha segnato …non so perchè ..ma è un film che ho sempre in testa….

  7. Ciao mister, interessante.
    Visto al cinema proprio l’anno dell’uscita è non più rivisto, mi piacque al tempo principalmente per la presenza di Clint Eastwood.
    Dovrei riaverlo per analizzarlo meglio le riflessioni del tuo articolo.

    Scusa se esco dal contenuto dal tuo articolo:
    Ricordo che l’anno prima usci Grindhouse – A prova di morte di Tarantino che trovai eccessivamente impregnato di contenuti tossici femministi, in quel film gli uomini sono tutti culturalmente bassi e poco forti mentre le donne sono tutte forti e super colte.
    Alcuni sostengono che la woke abbina iniziato a impestare il cinema americano dal 2015 in poi, in realtà in alcuni registi e alcuni film alcuni elementi erano già visibili.
    Tarantino nel suo c’era una volta a Hollywood mette in cattiva luce Bruce Lee (in un episodio che pare accade realmente ma con dinamiche diverse viste nel film).
    Credo che Tarantino ce l’abbia con Bruce Lee perché anche se asiatico rappresenta e incarna un’immagine fortemente nazionalistica e maschia di tipo di uomo.
    Bruce Lee voleva un tipo di moglie docile e accondiscendente se ricordo bene, il contrario delle donne rappresentate da tarantino.
    Scusa la mia uscita ma il tuo articolo mi ha fatto venire in mente questa cosa.

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