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La pace fa schifo

Coloro i quali ripetono in maniera allucinata che L’Europa ci ha dato settant’anni di pace (il computo non è stato aggiornato perché lo slogan nacque come velo pietoso per il massacro della Grecia), sono probabilmente gli stessi che si oppongono a qualsiasi “processo di pace” in Siria, convinti che un accordo comportante la presenza dell’attuale presidente Assad rappresenti in ogni caso un crimine contro l’umanità.

Non è un caso che almeno da un decennio ci si possa far beffe dei cosiddetti “pacifisti” semplicemente osservando come, sia in caso dell’intervento militare in Libia (mascherato da “primavera araba”) che nelle due “simulazioni” di bombardamento (purtroppo con vittime vere) verificatesi negli ultimi anni contro la Siria, l’imponente macchina delle manifestazioni, degli incontri e degli accorati appelli sia stata letteralmente silenziata.

Dovremmo quindi dedurre che anche per i pacifisti la pace non è un valore assoluto e che in alcune occasioni debba persino essere rifiutata per “cause di forza maggiore”. È una cosa che non ammetteranno mai, ma in effetti è l’unica conclusione che se ne può trarre: “pace” non è un ideale, ma un percorso difficile, umiliante e anche osceno. Soprattutto in una guerra civile, quando “fare pace” vuol dire dimenticare chi ha torturato e ucciso i tuoi figli e fratelli, perché l’unico modello possibile di ricomposizione di tale tipo di conflitto resta l’amnistia (in senso puramente togliattiano, è chiaro).

D’altronde, l’idea che sia stata l'”Europa” (in particolare quella configurata dal Trattato di Maastricht del 1992) a darci “settant’anni di pace” è di per sé un non sequitur. Abbiamo visto, infatti, la recente reazione ai “dazi di Trump” da parte dell’Unione: un’organizzazione che vuol dar di sé un’immagine irenica, tollerante, “erasmiana” e persino evangelica, non ha trovato di meglio che applicare la legge del taglione. Il che dimostra a posteriori che a darci questa “pace” siano state le centinaia di basi americane disseminate per il Vecchio Continente, e che dunque chi continua a ripetere quella fase fatta non fa altro che, in ultima analisi, rendere il suo “sogno” un sinonimo di impotenza e sconfitta.

Lasciando tuttavia da parte le varie minoranze rumorose, notiamo che pure a livello popolare la “pace” non è poi così apprezzata. Nel 2016, per esempio, i colombiani respinsero attraverso un referendum la possibilità di una “normalizzazione” delle Farc, nonostante lo stesso Papa Bergoglio si fosse schierato in prima linea per il “Sì” e il presidente patrocinatore Juan Manuel Santos fosse stato insignito di un Nobel “preventivo” (stile Obama), per non dire dell’attivismo della stampa internazionale (tutta galvanizzata da questa versione post-moderna dell’alleanza trono-altare). Eppure i media italiani avrebbero avuto buon gioco nel paragonare i guerriglieri comunisti, se non alla mafia (comparazione un po’ troppo irriverente per i “guardiani della voce”, anche se le differenze non sono poi molte), almeno ai nostri brigatisti, e presentare dunque il “referendum della pace” da una prospettiva meno edulcorata.

L’esempio delle Brigate Rosse non è pretestuoso, perché se durante il rapimento Moro si fosse tenuto un improbabile “referendum” per salvarlo, la maggioranza avrebbe quasi sicuramente votato contro. Uno dei punti più controversi dell’epistolario dello statista democristiano, che ha generato numerosi equivoci, riguarda l’incredibile assenza di un qualsiasi accenno al massacro degli uomini della scorta. L’unica ipotesi, per quanto amara, che gli storici hanno potuto trarne è che Aldo Moro implicitamente si rifiutò di porre l’accento sulle vittime delle Br per non fornire un argomento decisivo al “partito della fermezza”. Anche questo dimostra indirettamente che la pace fa schifo, cioè che persino nell’immediato costringe a passare sopra i cadaveri ancora caldi per poter stringere la mano al nemico. La rimozione di tale aspetto è talmente profonda che diversi “complottisti”, sconvolti dalla “indifferenza” di Moro, si siano trovati costretti a ipotizzare che egli sia stato “prelevato” da tutt’altra parte rispetto a via Fani.

Invece è proprio la “natura” della pace a sfuggirgli, e i casi in cui il fenomeno si verifica sono innumerevoli, tanto che potremmo continuare a snocciolare esempi su esempi (che nella situazione attuale sarebbero del resto quasi tutti ispirati dal “neo-isolazionismo” di Trump, dalla Siria citata all’inizio all’accordo con la Corea del Nord). Non c’è però bisogno di infierire, perché in fondo la pace, per quanto “disgustosa”, è una delle poche possibilità di salvezza che restano all’umanità: la sfida sarebbe quella di darle un contenuto positivo, riconoscendone però a tutti gli effetti la dimensione “oscura” e le controversie e i paradossi a cui essa conduce.

Al contempo ciò potrebbe portare, per certi versi, a una “rivalutazione” della guerra, o almeno a una sua fuoriuscita dal ghetto del non-essere e della negazione: qui basterebbe la lezione schmittiana sulla paranoia della “guerra che dovrà cancellare tutte le guerre” (cioè, sempre la prossima, fino all’apocalisse nucleare), ma anche, per risalire alle fonti, alle lucide e attualissime osservazioni del von Clausewitz nel classico Della guerra (libro VI), con le quali ci piace concludere.

«La guerra […] dipende più dal difensore che dall’invasore: l’invasione infatti provoca la difesa, e con essa la guerra. Il conquistatore è sempre a favore della pace ed entrerebbe volentieri nel nostro Stato del tutto pacificamente. Perché non lo possa fare dobbiamo essere noi a volere la guerra e anche a prepararla. In altre parole: devono essere i deboli, costretti alla difesa, a essere sempre armati e pronti a non essere sorpresi. Questo vuole l’arte della guerra».

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