In Concerto Romano Reinhard Raffalt racconta la storia di un ristoratore capitolino che negli anni ’30 del secolo scorso si era messo in testa di riportare in vita la cucina dell’Antica Roma:
«Da molto tempo vive a Roma un uomo che faceva il direttore di sala un ristorante non elegante, ma molto frequentato. Fin da giovane nutriva una notevole predilezione per le vecchie ricette culinarie. Era ossessionato dall’idea di scoprire come mangiavano le persone nei tempi antichi – e non sarebbe stato un romano se, fra tutti i popoli del passato, non fosse stato più interessato agli antichi Romani.
Un giorno, circa venticinque anni fa, mentre passeggiava in Piazza Borghese, trovò per caso un’edizione filologica di un testo latino. Diceva: Apicio. Chi portava questo nome era il capocuoco di Lucullo, una personalità importante per la cultura romana proprio in virtù di tale rango.
[….] Quando il nostro bravo ristoratore scoprì il libro di Apicio, decise subito di ricostruire i piatti in esso descritti. Un compito piuttosto problematico. I filologi classici avevano difficoltà a comprendere Apicio, poiché per esempio i nomi delle erbe da egli utilizzate erano quasi impossibili da decifrare. Ma il nostro storico della cucina ebbe un’idea geniale. Consultò un erborista di Trastevere, il quartiere dove si parla ancora un dialetto quasi più vicino al latino che all’italiano, a cui poi si aggiunsero un professore di latino e un vecchio farmacista, e con l’aiuto di questa squadra riuscì a realizzare almeno venticinque ricette di Apicio.
Quando riuscì dunque a preparare le pietanze, il suo orgoglio romano non gli permise più di continuare a fare il direttore di sala. Aprì il suo ristorante: l’ex Trattoria Romana in Piazza dell’Oratorio. Chi ordinava doveva mettere mano al portafoglio, ma aveva il piacere di trovare un menù in latino scritto su pergamena, di mangiare piatti dell’antica Roma e di farsi servire il vino in anfore di terracotta».
Non sono in grado di capire se questo locale esista ancora e se abbia portato avanti questa antichissima e recentissima tradizione, tuttavia mi domando se in esso Raffalt, che -ricordo- ai tempi era considerato la “voce della Baviera a Roma” e un indiscusso protagonista della diplomazia culturale (caduto poi in disgrazia perché considerato ingiustamente “tradizionalista”), abbia potuto assaggiare qualcosa di simile a uno dei suoi piatti preferiti della gastronomia italiana, la pizza.
È noto che in Apicio non sono presenti testimonianze dirette riguardo la pietanza, tuttavia si parla di vari “prototipi” di focaccia condita; e del resto altre fonti riportano appunto l’esistenza di qualcosa di simile nell’Antica Roma a una proto-pizza, come l’artolaganaus (la “pizza bianca”), il panis focacius (spesso arricchito con erbe aromatiche, formaggi o miele) o il moretum (il condimento di formaggi, aglio e spezie da porre su pane semplice cucinato in un testum).
Torniamo però a Raffalt: il suo amore per la pizza viene analizzato dal suo più grande studioso contemporaneo, il dottor Julian Traut, in un podcast che prende come spunto Eine Reise nach Neapel (sottitolo: E parlare italiano!), una raccolta di lezioni sulla lingua e la cultura italiana che l’Autore tenne per la Bayerischer Rundfunk nel 1956 e che nonostante sia considerata dallo stesso uno Jugendsünde, un peccato di gioventù, resta obiettivamente il suo volume più conosciuto in patria.
Un dato interessante ricordato da Traut è che Raffalt parla della “pizza” quasi come di una pietanza esotica (e lo studioso ricollega questo modo di trattarne a un interessante anacronismo, paragonandolo alle osservazioni sui facchini presenti nelle stazioni, figure ormai scomparse nel panorama italiano). Addirittura l’intellettuale bavarese la definisce una “frittella italiana”, Ein italienischer Pfannkuchen (anche se poi vedremo come la sua connotazione geografica sia più precisa).
In effetti, nota giustamente Traut, “negli anni ’60 del secolo scorso a nord delle Alpi il concetto di pizza era in realtà quasi sconosciuto“: anzi, addirittura nemmeno nell’Italia settentrionale si sapeva cosa fosse almeno fino agli anni ’60 inoltrati (le genti lombarde e venete di quella generazione, per dire, non impararono mai nemmeno a pronunciarne il nome, adottandola come pissa).
Al giorno d’oggi, dove la gastronomia è diventata “l’estremo rifugio delle canaglie” perché gli italiani hanno riversato su questo settore -obiettivamente non indispensabile per l’esistenza di una nazione- ogni sentimento di patriottismo, è difficile anche solo stilare una sintesi dell’eterno dibattito sulle origini della pizza, nonché addirittura su qualche piatto si debba definire con tale termine.
È forse quella bianca, o quella fritta? Non condivido le opinioni di chi afferma che la pizza contemporanea sia un’invenzione degli americani (o per meglio dire degli italo-americani), però è un altro dato di fatto che quando i soldati yankee giunsero in Italia durante l’ultimo conflitto mondiale, soprattutto al Nord non trovarono alcuna “pizzeria” specializzata nella pietanza.
Per Raffalt, d’altro canto, la pizza non è una frittella “italiana” come ricorda Traut, bensì “romana”, ein römischer Pfannkuchen. Ecco come ne parla ancora in Concerto Romano:
«La pizzeria è un posto dove si mangia la pizza. Facile a dirsi, ma non altrettanto a farsi. La pizza è un alimento popolare, la specialità della gente comune, inventata a Napoli ma sviluppata a Roma con un’incredibile versatilità. La pizza è molto più di un semplice impasto simile a quello di una frittella, con ogni sorta di ingredienti che galleggiano sopra immersi in una pozza di formaggio liquido: la pizza è una scienza, una celebrazione.
La pizza è un’immagine di Roma: vecchio e nuovo mescolati insieme, portati a maturazione nel clima dolcemente caldo di un enorme forno, una composizione morbosa di piaceri semplici nelle loro transizioni più stravaganti – e il piccolo e il grande uomo concordano sull’importanza di questa cosa.
Non riesco nemmeno a descriverne il sapore. Chi ama il Vino dei Castelli buono e puro non troverà niente di meglio di questo gusto complementare, perché la pizza mette il bevitore nella piacevole posizione di potersi abbandonare al piacere del vino per lungo tempo, ampiamente e con gioia sempre rinnovata. I nomi che le vengono dati, a seconda della composizione dei suoi ingredienti, sono già rivelatori: pizza alla Papalina, da tradurre letteralmente (ed espressamente senza la minima blasfemia, anzi, in modo quasi affettuoso) “Pizza alla Santo Padre”; Pizza alla Capricciosa, die kapriziöse; Pizza alla bella signora (questo non ha bisogno di traduzioni); Pizza alla pescatora, dal nome di una bella pescatrice. Oltre alla pizza, nella pizzeria potrete gustare altri tre piatti tipici della cucina romana: crostini, calzoni e supplì».
Per Raffalt dunque la pizza aveva origini napoletane ma la sua “italianizzazione” partiva da Roma (un compromesso più accettabile che non gli Stati Uniti!). Al di là delle discussioni, è piacevole rendersi conto di come un piatto che consideriamo parte integrante da secoli, se non millenni, della tradizione culinaria italiana fino a pochi decenni fa nella Penisola era considerato solo una specialità regionale.
Ad ogni modo, ciò che è altamente suggestivo in tutte queste chiacchiere è che di recente (oddio, son passati oltre vent’anni…) due studiosi italiani, il linguista Franco Fanciullo e il grecista Pierpaolo Fornaro, sembra abbiano individuato l’etimologia della pietanza niente di meno che in… Apicio.
Nello studio Apicio heuretes eponimo della pizza? (“Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano”, III, 26, 2002) Fanciullo e Fornaro, dopo aver passato in rassegna le varie ipotesi etimologiche (germanica bizzo/pizzo, “morso”, “pezzo di pane”; greco-balcanica, pitta; italiana, “pezzo” o “pezza”) arrivano alla loro proposta: una derivazione dal termine latino ipotetico *apicia, cioè “focaccia all’Apicio”.
Una suggestione molto forte, che rimanda al quesito da cui siamo partiti: Raffalt avrà mai degustato una “pizza” apiciana in quella famosa locanda? Perché ciò sarebbe quasi una “quadratura del cerchio”. E visto che ci è rimasto solo il mangiare, almeno rivendichiamo in qualsiasi modo il primato italiano nel campo. Forse sarebbe il caso di indagare sulla storia di questo ristorante che sembra perso nella leggenda: chi ha informazioni potrebbe, di grazia, condividerle…
Con quali ingredienti è fatta la pizza alla papalina?
Lo sapete che, nel corso del giubileo del 2000 fu “tenuta a battesimo” la pizza VATICANO?
Mozzarella e zucca. Ovvero bianco e giallo, i colori della bandiera vaticana.