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La quarantena di massa può trasformarsi in una apocalisse sociale

«Non ci sarà nessuno collasso come qualcuno crede. Non sarà come un film con gli zombie o qualsiasi altra cosa in cui a un certo punto tutto collassa, i prezzi salgono alle stelle, il popolo di ribella e le SS arrivano a fare piazza pulita. Non ci sarà alcun “evento”. La faccenda è molto più insidiosa. Leggete The Hollow Men di T.S. Eliot e capirete [“Così il mondo finisce | Non con uno schianto ma con un lamento”].
Comincerete a notare che le cose diventano un po’ più costose giorno per giorno. Le case e gli appartamenti inizieranno a diventare sempre più piccoli. Le vostre ore lavorative aumenteranno, ma la paga diminuirà. Vedrete meno spesso familiari e amici e col tempo scoprirete che di loro non vi interessa più nulla. Giorno per giorno vi accorgerete di dover abbassare i vostri standard su tutto: lavoro, cibo, relazioni, ecc. La certezza del lavoro non esisterà più nemmeno come concetto. Noterete, come detto, il restringimento di case e appartamenti. Meno persone si sposeranno, e ancor meno avranno figli. La gente si lascerà assorbire dalle distrazioni tecnologiche e dal fantasy senza più fare esperienze nel mondo reale.
I sogni che vi eravate fatti, diventeranno un pallido ricordo. L’unica cosa rimasta sarà una realtà fatta di debiti e povertà. E in ogni istante, ogni giorno, vi verrà ripetuto: “Siete stupidi, brutti e deboli, ma assieme potrete essere liberi, prosperi e sicuri”.
Questo è il crollo. La riduzione dell’uomo americano in un servo della gleba, incapace di provare amore o odio, incapace di comprendere la sua condizione patetica né riconoscere il proprio valore».

Così scriveva un anonimo americano su 4chan nell’ormai lontano 2013: un messaggio contro i teorici del collasso, gli accelerazionisti, gli apocalittici e i survivalisti che speravano in un finale col botto. Scenario fin troppo “ottimista” per lo scettico estensore: la vera tragedia è che non ci sarà alcuno “schianto”, il mondo finirà not with a bang but a whimper.

L’unica concessione che potremmo fare al catastrofismo è che l’exitus della società occidentale sarà probabilmente accelerato dai provvedimenti riguardanti la quarantena di massa che, nelle circostanze attuali, non possono non assumere una valenza anche politica. Non c’è bisogno di essere complottisti per rendersi conto che attorno a tutta questa vicenda girano interessi ben più grandi che non la semplice salute dei cittadini: del resto, riferendosi al caso italiano (ma non solo), se il benessere della plebe stesse davvero a cuore alla nostra classe politica, allora non avrebbe dovuto fare di tutto per evitare gli osceni tagli alla sanità e al welfare?

Siccome nessun partito attualmente al governo ha mai realmente agito per il bene del popolo, ma piuttosto seguendo oscure e inafferrabili logiche dettate da altrettanti oscuri interessi, viene il legittimo sospetto che se anche ci fossimo trovati al cospetto della peste (cosa che il coronavirus non è), il metodo della decretatura non sarebbe comunque stato utilizzato per salvare la vita di un solo italiano, ma per perseguire altri scopi.

Alla fine, sembra soltanto una questione di circostanza: i due partiti che ora ci governano (con un patto politicamente -oltre che moralmente- insostenibile), hanno da sempre avuto “programmi” ben precisi.

Il primo, il Movimento Cinque Stelle, preme per l’introduzione di un “reddito di cittadinanza” in linea coi diktat della finta opposizione a livello internazionale, che vuole rimpiazzare la dignità del lavoro con fantasie di decrescita, deindustrializzazione e pauperismo.

Il secondo, il Partito Democratico (e la galassia che gli ruota attorno), desidera dall’istante stesso della nascita di far “entrare l’Italia in Europa” attraverso un commissariamento il più intransigente possibile, in modo da velocizzare l’iter di integrazione continentale con ogni mezzo necessario e attraverso qualsiasi tipo di sacrificio.

Si dà il caso che il coronavirus offra a entrambi gli schieramenti una occasione d’oro per rendere da un lato socialmente accettabile la cancellazione del lavoro dall’Italia come “cosa fatta” (che all’Inferno “capo ha”), e dall’altro per costringere un Paese in ginocchio a firmare qualsiasi contratto capestro in favore di Berlino, Bruxelles e… Amsterdam (che in questa rincorsa al ridicolo ha scavalcato persino Parigi).

La sensazione è quindi che si sia passati a un nuovo livello di austerity: non più economica, ma direttamente biologica. Il resto non è che terrorismo mediatico e psicologico, utile solo a mortificare e rincretinire le masse.

Del resto, non è un caso che nella task force messa in piedi dal governo per decidere quando finalmente ci faranno uscire di casa (gestita nientedimeno che da un imprenditore della telefonia, scelto secondo chissà che criteri), compaiano anche due sociologi, una psicologa e uno psichiatra. Servirà come minimo una qualche forma di “terapia collettiva” per rimettere in sesto un popolo da morbo chiuso combattuto e vinto.

Proprio in questi giorni di isolamento, manco a farlo apposta, mi è capitato di leggere un recente volume del neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer: Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa (Corbaccio, 2018). Il libro mette sotto accusa la manipolazione psico-emotiva, sociale e cognitiva che i social network esercitano sulle nuove generazioni, la quale modellerebbe individui isolati e narcisisti, dediti solo al consumismo, perfetti esemplari della nuova specie delll’homo oeconomicus.

Al di là delle considerazioni sui nuovi mezzi di comunicazione di massa, perlopiù condivisibili (anche se non sempre, perché moralismo e misoneismo sono in agguato), al nostro caso fa d’uopo soprattutto le note sui danni alla salute provocati dall’isolamento. Come infatti osserva Spitzer, la sensazione di solitudine si innerva sulle stesse aree cerebrali attivate dal dolore fisico (la corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventromediale destra), il che significa che la sofferenza causata dal “sentirsi soli”, all’apparenza così evanescente e “incorporea”, rappresenta un preciso meccanismo evolutivo atto a spingere il singolo a entrare in contatto coi suoi simili e garantire così la sua esistenza e quella della specie.

Preso atto della “missione” dell’umano di adempiere alla propria natura di animale sociale, Spitzer identifica la dimensione più nefasta della distruzione del sociale attraverso i social nell’erosione di quel patrimonio di fiducia reciproca che si costruisce proprio con l’interazione in real life. Il discorso, è chiaro, si estende ad altri ambiti disintegrati dalle tecnologie dell’isolamento, come quello culturale (minato dai talk show), del tempo libero (saturato dai reality) e del commercio (reso asettico e “algoritmico” da Amazon & co.).

Ci si domanda, visto il fervore della polemica dello studioso contro i “mezzi”, quale potrebbe essere la sua opinione nei confronti della quarantena di massa, che peraltro non minaccia più solo la stabilità dei millennial ma estende il ripiegamento su se stessi a generazioni che magari non avevano ancora avuto a che fare con questo tipo di “isolamento indotto”.

È vero che l’uomo rimane zoon politikon, tuttavia si prova come il timore che esso possa in qualche modo “dimenticare” cosa vuol dire far parte di una società. Se già la prospettiva dello neuropsichiatra tedesco è a dir poco apocalittica (per esempio egli pone con una certa disinvoltura l’isolamento come prima causa di morte in Occidente, in base alle ripercussioni che lo stress cronico da esso generato ha sulla salute: infarto, ictus, cancro…) diventa angosciante pensare, partendo da tali premesse, in quale girone infernale potremmo ritrovarci una volta che ci conferissero finalmente il lusso di girare per i nostri quartieri.

Se tutto questo non vuole trasformarsi in un colossale esperimento con gli umani al posto dei topi, allora sarà necessario in primo luogo valorizzare la dimensione sociale, il che al di là di ogni retorica si traduce con la repressione delle condotte anti-sociali. Sono consapevole che questa cosa possa già puzzare di soviet e collettivismo (specialmente all’anonimo commentatore da cui siamo partiti, che da bravo americano avvisterà il socialism dappertutto), a ben vedere però è stata proprio la “mentalità da selfie”, anche a livello politico (e non mi riferisco a Salvini), ad averci condotto a tale deriva.

Pensiamo all’immigrazionismo degli “ottimati” che continua appunto a “piacere alla gente che piace”, nonostante l’emergenza sanitaria: il fatto di aver permesso che l’Italia divenisse il campo profughi d’Europa, infischiandosene delle conseguenze sociali (oltre che sanitarie, lavorative e finanziarie) di questo epocale sommovimento di masse è, appunto, un comportamento anti-sociale. L’importante è intendersi su premesse e fini: nessuno dovrà più permettersi di ragionare da una posizione, anche presunta, di “privilegio”. E questo valga per l’ambito economico come quello culturale o politico.

Una soluzione semplice sarebbe quella di declinare il tutto in chiave nazionalistica, in effetti la più oliata “tecnologia culturale” di inclusione di diversi individui in un medesimo orizzonte. Tuttavia, per come siamo ridotti andrebbe bene qualsiasi tipo di ethos: umanitario, socialista, universalistico. Vorremmo aggiungere “europeo”, se ormai non suonasse come una bestemmia. L’importante in ogni caso è difendere la società, affinché l’austerity non entri, oltre che nelle tasche, anche nelle menti e nei cuori.

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