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La questione etnica nel Partito Comunista Italiano

«[…] Nella sua lunga storia e tradizione politica, il Pci non aveva mai dato il potere di decisione politica agli emiliani, gente seria e operosa, capace di costruire modelli sociali e fare quattrini, capace di irrobustire organizzazioni territoriali, di stabilire un rapporto di fiducia molto forte con la popolazione urbana e delle campagne, di innovare l’economia a partire dal terzo settore cooperativo, buona scuola di governo locale e poi nazionale, ma inetti nella manovra, nella guerra, nella comunicazione politica. I segretari del Pci venivano tutti dal Regno sardo-piemontese, Torino o Genova o Sardegna, e non era una superstizione antropologica. Ai bolognesi, ai modenesi, ai reggiani e ai piacentini toccavano gli onori della parata, e grandi incarichi riservati, ma non il posto di guida. Mai. E questo nonostante fossero il pezzo più forte, pregiato e ricco del Partito comunista».

(Giuliano Ferrara, Il caro Bersani non è adatto alla guida del Pd, “Il Foglio”, 18 gennaio 2010)

«Bersani mi pare all’ultimo giro. Rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane».

(Enzo Bettiza, intervista al Corriere, 26 aprile 2010)

«Nel vecchio Pci mai nessun emiliano e toscano era mai assurto alla segreteria politica, alla cuspide del partito, dove regnavano da sempre torinesi e romani con qualche sarda e nobile inserzione. I toscani e gli emiliani erano le furerie addette ai carriaggi e alla manutenzione del sistema burocratico e amministrativo locale e nazionale. Esseri di serie B: ammirati ma distanziati dalla politica di largo respiro. Addetti al finanziamento e alla propaganda. Costoro, i rifiutati, erano considerati utili idioti -in senso tecnico, appunto-, quasi i componenti della cosiddetta sinistra indipendente, i quali dovevano solo e sempre loro fornire tecnici e pontieri a un partito operaista e di competenze umanistiche piuttosto che economiche. E dovevano offrire in primo luogo legittimazione borghese a un partito che tutto era meno che borghese».

(Giulio Sapelli, Da Tangentopoli a Bersani, ecco il ‘piano’ del Pci-Pd, “Il Sussidiario”, 1 aprile 2013)

Per confermare queste testimonianze basta una rapida scorsa ai notabili del PCI dal 1921 al 1994, lista che peraltro replica l’andazzo nazionale dal 1861 in avanti (Regno di Sardegna + liberalità napoletana): Amadeo Bordiga (nato ad Ercolano, e di origine piemontese da parte di padre), Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer (sardi), Luigi Longo e Camilla Ravera (entrambi di Alessandria), Aldo Tortorella e Giorgio Napolitano (napoletani), Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli e Achille Ochetto (torinesi), Palmiro Togliatti e Alessandro Natta (liguri, sempre Regno di Sardegna).

Dopodiché, come scrive lo storico Walter Dondi, «nel 1996 con la vittoria dell’Ulivo alle elezioni politiche, l’Emilia-Romagna va al governo dell’Italia. È, si può dire, una regione intera che assume un ruolo dirigente nazionale» (Bologna Italia. L’esperienza emiliana e il governo dell’Ulivo, Donzelli, 1998, p. 3) –  Franceschini incluso. Forse l’unica eccezione potrebbe essere rappresentata (ma sarebbe il colmo) da Pier Luigi Bersani, poiché, come sostiene un lettore,

«L’Emilia grassa e rossa si ferma all’Ongina: Piacenza è altro, ben più ferrigno e aspro e marziale. Non per nulla accoglie i radi visitatori con la lupa di Roma e l’ammonimento “quale vigile scolta fra i barbari vinti, Roma qui dedusse nel XX avanti Cristo una colonia militare che nomò Placentia“. Quanto alla piazza principale di tale città, non vi campeggia il classico Garibaldi altrove onnipresente, ma le statue equestri di Ranuccio e Alessandro Farnese, quest’ultimo a suo tempo condottiero dei Tercios asburgici nelle Fiandre».

Ad ogni modo, ora sono giunti i toscani (finora coinvolti solo per il versante labronico, per i tradizionali agganci d’oltremanica), ma sembra che per superare la “superstizione antropologica” il nuovo rampollo abbia come priorità direttamente la sostituzione etnica: chissà se un giorno, pur di liberarsi dagli emiliani, sarà disposto a offrire la dirigenza a marocchini e congolesi?

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