Nella conferenza Goethe und die Demokratie (1949), Thomas Mann traccia il profilo di due Germanie, la “buona” (la Germania europea) e la “cattiva” (l’Europa tedesca, «aspirazione terrificante del nazionalismo germanico»): si tratta di un discorso contemporaneamente al di sotto e al di sopra del politico, ma che ciononostante riesce a dire molto sulla Germania odierna e la “questione” che essa rappresenta per l’europeismo.
Secondo la dicotomia di Mann, da una parte esisterebbe una Germania alla quale si addicono «l’espandersi cordiale, il senso aperto per il mondo, la conoscenza e l’ammirazione e l’accogliere e il rielaborare le civiltà straniere», mentre sull’altro versante incomberebbero «il culto tedesco romantico della morte» e «la volontà aristocraticamente poetica del dissolvimento»: al centro delle tendenze, colui che a detta dell’Autore è «l’ultimo sovrano spirituale dell’Europa», Johann Wolfgang Goethe.
Goethe è il tipo di tedesco che anela a qualcosa di “completamente diverso”, a una civiltà (e a una spiritualità) “straniera”: «Considerava la sua nascita e la sua esistenza in Germania come una meschinità, in confronto a quello che sarebbe potuto diventare in Inghilterra», afferma Mann. Oltre al Regno Unito (inteso in realtà come Impero Britannico), intriso di pragmatismo democratico, di una vitalità che aveva risolto efficacemente la discrepanza tutta tedesca fra pensiero e azione, Goethe cercava la fuga, l’evasione (uno dei motivi della sua esistenza non solo intellettuale) anche nelle masse cattoliche italiane (il cui “sentimento popolare” percepiva come intima forza di natura) e infine, negli Stati Uniti d’America.
Il Goethe “americano” è quello in cui prevale definitivamente l’avversione per ciò che “astratto” e “nemico della vita”:
«La sua vecchiaia è animata da curiosità per ciò che è vivo, […] [trova] piacere in discorsi e ragionamenti economici e tecnici […], [tanto che] alla tavola di questo grand seigneur del secolo decimottavo, spesso così rigido e solenne, si parla quasi più e con più calore di navi a vapore, dei primi tentativi di navigazione aerea, di progetti tecnici di importanza mondiale ancora utopistici, come il canale di Panama e di Suez, collegamento fra il Danubio e il Reno, che non di letteratura e di poesia» (tr. it. B. Arzeni, 1978).
È tuttavia un entusiasmo soltanto yankee, perché il Goethe tedesco ora rimpiange di non aver lasciato la patria trent’anni prima alla volta dell’America per risparmiarsi «Kant e tutto il resto». Egli non parla alla “Germania buona”, ricca di spirito ma impotente di fronte all’avvento della “Letteratura mondiale” (Weltliteratur), al «libero commercio delle idee e dei sentimenti» che per Goethe avrebbe caratterizzato la vita spirituale del XIX secolo.
Un tale esito nella coscienza del Poeta, più che alla senilità, fu dovuto alle contraddizioni irrisolte di un’anima che ha rappresentato a lungo anche lo spirito dell’intera nazione. Prima dell’infatuazione per gli Stati Uniti, ci fu infatti l’entusiasmo estetizzante per l’Italia (e il cattolicesimo) come «amore conservativo per l’elemento popolare», contrapposto agli ideali rivoluzionari per l’Umanità intesa in senso utopico, tipica della Germania schilleriana e della Francia giacobina. Il Viaggio in Italia, dunque, è da interpretarsi soprattutto come fuga da tutto ciò è tedesco: «Si dovrebbe diventar subito cattolici per partecipare all’esistenza degli uomini. Mescolarsi a loro, pari a loro, una vita in piazza, in mezzo al popolo. Che gente misera, solitaria, siamo noi, nei nostri piccoli stati sovrani!».
La Germania è troppo “amletica” per Goethe: egli vuole il Fortebraccio britannico, italiano e infine americano. Proprio nell’ultima fase della sua vita estenderà la stessa insofferenza all’Europa intera, divenuta ormai una Großdeutschland, «un mondo complicato, stanco, vecchio […], sovraccarico di tradizione spirituale e storica e minacciato infine dal nichilismo».
È interessante osservare come a porre le basi per l’esito nichilista sia stato lo stesso Goethe, nell’istante in cui tentò di conciliare natura e cultura per tramite del vitalismo, accompagnando la repulsione per la teoria, il pensiero, l’ideale, con l’estetismo naturale, il panteismo spinoziano, il culto del genio. L’atto di fede conclusivo nel progresso non fu che il prevalere dell’istinto di sopravvivenza (che Mann riconosce come “tratto democratico”) sulla “Germania cattiva” del Kult des Todes citato all’inizio.
Riconoscere nella Germania moderna e contemporanea le stesse contraddizioni evidenziate nel saggio di Mann potrebbe apparire come un paragone indebito. Tuttavia oggi sono in atto, nel bene e nel male, sommessi tentativi di riscrivere la storia tedesca nella prospettiva di una prossima islamizzazione. Sarebbe facile chiamare in causa le “persianerie” del West-östlicher Divan (l’ennesimo “altrove” cercato da Goethe), ma si può benissimo rimanere a un livello meno alato: ricordiamo che fu Guglielmo II nel 1898 a patrocinare la ricostruzione del mausoleo del Saladino completamente abbandonato, contribuendo alla rinascita del mito del sovrano vittorioso tra le masse arabe.
Possiamo sorvolare sui rapporti tra Islam e nazismo (per tutta la gazzarra propagandistica messa in piedi proprio in questi anni), ma è impossibile fingere che il problema non esista. Per fare un esempio, l’odierno entusiasmo per un’immigrazione “rigenerante” (classico metodo anti-age tedesco, risalente appunto al Faust), puzza un po’ troppo di letterario. Oggi la Germania non è quella che Goethe avrebbe voluto, poiché quella “buona”, cioè spirituale, è totalmente impotente (non esiste nessuna egemonia culturale tedesca nemmeno come midcult), mentre quella “cattiva” è straripante: il divario è perciò sempre più pronunciato e la sopravvivenza impone nuovamente la ricerca di un Fortebraccio. La catastrofe è già annunciata, ma ci si augura almeno che in tempi in cui domina la mediocrità in tutti i campi, anch’essa si lasci influenzare dall’andazzo generale e si realizzi perciò nelle modalità le più modeste possibili.

Es ist lächerlich, was ich gleich sagen werde, aber ich habe nicht die Originalversion von Thomas Manns Vortrag Goethe und die Demokratie, deshalb habe ich die zitierten Passagen aus dem Italienischen ins Deutsche übersetzt. Ich verstehe, dass dies eine intellektuell unkorrekte Haltung ist (und, wie gesagt, lächerlich!), aber falls ein deutscher Freund mir irgendwie den Originaltext zur Verfügung stellen könnte, wäre ich ihm sehr dankbar.
In der Vorlesung Goethe und die Demokratie (1949) zeichnet Thomas Mann das Profil zweier Deutschlands: des „guten“ (das europäische Deutschland) und des „schlechten“ (das deutsche Europa, „schreckliche Aspiration des germanischen Nationalismus“). Es handelt sich um eine Rede, die gleichzeitig unterhalb und oberhalb des Politischen liegt, die jedoch dennoch viel über das heutige Deutschland und die „Frage“ aussagt, die es für den Europäismus darstellt.
Gemäß Manns Dichotomie existiert auf der einen Seite ein Deutschland, dem „die herzliche Ausdehnung, der offene Sinn für die Welt, das Wissen und die Bewunderung sowie das Aufnehmen und Verarbeiten fremder Zivilisationen“ eigen sind, während auf der anderen Seite „der romantische deutsche Kult des Todes“ und „der aristokratisch-poetische Wille zur Auflösung“ drohen: Im Zentrum dieser Tendenzen steht laut dem Autor der „letzte geistige Gebieter Europas“, Johann Wolfgang Goethe.
Goethe ist der Typ des Deutschen, der nach etwas „ganz anderem“ strebt, nach einer „fremden“ Zivilisation (und Spiritualität): „Er betrachtete seine Geburt und Existenz in Deutschland als eine Kleinlichkeit im Vergleich zu dem, was er in England hätte werden können“, behauptet Mann. Neben dem Vereinigten Königreich (eigentlich als Britisches Empire verstanden), durchdrungen von demokratischem Pragmatismus, von einer Vitalität, die die typisch deutsche Diskrepanz zwischen Denken und Handeln effektiv gelöst hatte, suchte Goethe die Flucht, die Ausflucht (eines der Motive seines nicht nur intellektuellen Daseins) auch in den katholischen Massen Italiens (deren „Volksgefühl“ er als innere Naturkraft wahrnahm) und schließlich in den Vereinigten Staaten von Amerika.
Der „amerikanische“ Goethe ist derjenige, in dem endgültig die Abneigung gegen das „Abstrakte“ und das „lebensfeindliche“ überwiegt:
„Sein Alter ist von Neugier für das Lebendige erfüllt, […] [er findet] Gefallen an wirtschaftlichen und technischen Gesprächen und Überlegungen […], [sodass] an der Tafel dieses Grandseigneurs des achtzehnten Jahrhunderts, oft so steif und feierlich, fast mehr und mit mehr Wärme über Dampfschiffe, die ersten Versuche der Luftfahrt, über technische Projekte von noch utopischer weltweiter Bedeutung, wie den Panama- und Suezkanal, die Verbindung zwischen Donau und Rhein, gesprochen wird als über Literatur und Poesie.“
Es ist jedoch nur eine yankee Begeisterung, denn der deutsche Goethe bedauert nun, nicht dreißig Jahre zuvor in Richtung Amerika die Heimat verlassen zu haben, um sich „Kant und all den Rest“ zu ersparen. Er spricht nicht zum „guten Deutschland“, reich an Geist, aber machtlos angesichts des Aufkommens der Weltliteratur, des „freien Handels von Ideen und Gefühlen“, der für Goethe das geistige Leben des 19. Jahrhunderts geprägt hätte.
Ein solches Ergebnis im Bewusstsein des Dichters war weniger dem Alter geschuldet als den ungelösten Widersprüchen einer Seele, die lange Zeit auch den Geist der gesamten Nation repräsentierte. Vor der Schwärmerei für die Vereinigten Staaten gab es nämlich die ästhetisierende Begeisterung für Italien (und den Katholizismus) als „konservative Liebe zum Volkselement“, im Gegensatz zu den revolutionären Idealen für die Menschheit im utopischen Sinne, typisch für das schillerische Deutschland und das jakobinische Frankreich. Die Italienreise ist daher vor allem als Flucht vor allem Deutschen zu interpretieren: „Man sollte sofort katholisch werden, um am Dasein der Menschen teilzuhaben. Sich unter sie mischen, ihnen gleich, ein Leben auf dem Platz, mitten unter dem Volk. Welch armes, einsames Volk sind wir in unseren kleinen souveränen Staaten!“
Deutschland ist für Goethe zu „hamletisch“: Er will den Fortinbras britisch, italienisch und schließlich amerikanisch. Gerade in der letzten Phase seines Lebens wird er dieselbe Unzufriedenheit auf ganz Europa ausdehnen, das inzwischen zu einem Großdeutschland geworden ist, „eine komplizierte, müde, alte Welt […], überladen mit geistiger und historischer Tradition und schließlich vom Nihilismus bedroht“.
Es ist interessant zu beobachten, dass es gerade Goethe selbst war, der diesen nihilistischen Ausgang vorbereitete – in dem Moment, in dem er versuchte, Natur und Kultur durch den Vitalismus zu versöhnen, wobei die Abneigung gegenüber Theorie, Denken und Ideal einherging mit natürlichem Ästhetizismus, spinozistischem Pantheismus und dem Kult des Genies. Der abschließende Akt des Glaubens an den Fortschritt war nichts anderes als das Überwiegen des Überlebensinstinkts (den Mann als „demokratische Eigenschaft“ erkennt) über das „schlechte Deutschland“ des eingangs erwähnten Kult des Todes.
In der modernen und zeitgenössischen Bundesrepublik dieselben Widersprüche zu erkennen, die Mann in seinem Essay hervorhebt, mag als gewagter Vergleich erscheinen. Doch auch heute finden, im Guten wie im Schlechten, leise Versuche statt, die deutsche Geschichte im Hinblick auf eine mögliche Islamisierung neu zu schreiben. Es wäre leicht, die „Persianismen“ des West-östlicher Divan ins Spiel zu bringen (ein weiteres von Goethes „Anderswo“), doch wir können durchaus auf einer bodenständigeren Ebene bleiben: Man erinnere sich nur daran, dass es Wilhelm II. war, der 1898 die Restaurierung des völlig verfallenen Saladin-Mausoleums förderte und somit zur Wiedergeburt des Mythos vom siegreichen Sultan unter den arabischen Massen beitrug.
Man kann die Beziehungen zwischen Islam und Nationalsozialismus (mit all der propagandistischen Inszenierung der letzten Jahre) übergehen, doch man kann nicht so tun, als gäbe es das Problem nicht. Zum Beispiel: Die heutige Begeisterung für eine „verjüngende“ Einwanderung (eine klassische deutsche Anti-Aging-Behandlung, die bis auf den Faust zurückgeht), riecht ein wenig zu sehr nach Literatur. Das heutige Deutschland ist nicht das, was sich Goethe gewünscht hätte, denn das „gute“, also das geistige, ist vollkommen machtlos (es existiert keine deutsche kulturelle Hegemonie, nicht einmal auf mittlerem Niveau), während das „schlechte“ überquillt: Die Kluft wird also immer größer, und das Überleben erzwingt erneut die Suche nach einem Fortinbras. Die Katastrophe ist bereits angekündigt, doch man hofft immerhin, dass sie sich – in einer Zeit allgemeiner Mittelmäßigkeit – ebenfalls von dieser allgemeinen Stimmung anstecken lässt und sich daher in möglichst bescheidenen Formen verwirklicht.