Longanesi ha appena dato alle stampe Nel mirino, il memoir del cecchino curdo Azad Cudi pubblicato nel 2018 in Inghilterra col titolo Long Shot e dedicato alla battaglia per Kobane. Che in realtà noi italiano dovremmo scrivere in maniera diversa perché la pronuncia è Kobanì, ma dato che le fonti da cui attingiamo sono tutte anglofone, ci adattiamo alle loro traslitterazioni. Sì, non è bello iniziare subito con la “polemicuccia”, ma è praticamente impossibile parlare di questo volume come se si trattasse di un romanzo di guerra qualsiasi.
Questa. infatti. è più che altro pornografia bellica per centri sociali, un tentativo di resuscitare l’epica guerriera in un’epoca dive il disfattismo è l’unica virtù riconosciuta, una testimonianza irriflessiva e acritica che verrebbe destinata immediatamente al cestino della storia, se per l’appunto non fosse stata scritta da un curdo.
Ma vediamo di capire di che si tratta, prima di riprendere subito la polemica: “Azad Cudi” è il nome di battaglia di un giovane iraniano di origine curda che, dopo aver disertato la leva obbligatoria e aver trovato rifugio a Leeds, a trent’anni decide di tornare in Medio Oriente per combattere nel Rojava assieme alle famigerate “Unità di Protezione Popolare” (YPG). Le sue qualità di cecchino (paradossalmente affinate nei pochi mesi di servizio nell’esercito persiano) gli tornano utili per “fare a pezzi i jihadisti” e guadagnarsi tanto onore nella “nuova resistenza”.
Potete immaginarvi cosa sia il volume: tonnellate di propaganda filo-curda costellate da fotografie ripugnanti sui nemici uccisi da qualche coraggioso “nuovo partigiano”.
Per non dire dell’ideologia Blut und Boden che costella il memoriale sin dalla prima pagina: “L’albero della libertà si innaffia col sangue”, afferma l’Autore citando un vecchio proverbio curdo, e dunque, in nome del sangue e del suolo, di quella terra che “unisce contadini e combattenti”, è giusto uccidere quanti più jihadisti possibile (“Ne ho abbattuti 250”, afferma con orgoglio il Nostro).
Secondo Azad, infatti, il Kurdistan è il centro dello mondo e la culla della civiltà: questo il leitmotiv della sua “avventura” da quando avvista i “picchi innevati dove Noè attraccò con l’arca” mentre si dirige verso il Rojava, fino alle digressioni sulla storia di Kobane “capitale del paradiso terrestre” (perché facente parte della Mezzaluna Fertile), luogo di nascita dell’agricoltura e stazione di sosta per Abramo, Sara e Isacco (che a suo dire si fermarono nei pressi di un’oasi prosciugata lì nei dintorni).
Questa è il tipo di mitologia politica con cui i curdi vengono allevati, un abito mentale talmente radicato che Azad non sente alcuna contraddizione con le sue idee pseudo-socialiste ispirate dal noto Öcalan, che nel volume è presentato come una sorta di guru pacifista femminista ambientalista ma il cui nome viene urlato sui campi di battaglia ogni volta che si ammazza un nemico (“Lunga vita al Comandante Apo!”).
Venendo alla “guerra guerreggiata”, nella ricostruzione del cecchino essa appare quasi come un gioco per bambini, una sorta di “nascondino” per adulti che cercano una causa per cui morire. Questo però non toglie nulla alla spietatezza di Azad, che per esempio apostrofa la “caccia” a un vecchio jihadista al quale ha appena ammazzato il nipotino con queste pietose parole: “Avrei piantato una pallottola in testa a quel bastardo con la barba”.
Su tutto aleggia (è proprio il caso di dirlo) il convitato di pietra della Coalizione, il supporto aereo fornito da un centinaio di Paesi agli eroici curdi che ovviamente avrebbero potuto cavarsela da soli, ma che se proprio vanno aiutati allora aiutiamoli. Il momento in cui Azad Cudi si “accorge” che i jet americani gli stanno sterminando i nemici davanti agli occhi è esilarante nella sua (artefatta?) ingenuità. Forse è per questo che chiamano i curdi “nuovi partigiani”: anche loro fanno finta di aver vinto da soli e non grazie agli yankee…
La validità del memoriale risulta inficiata soprattutto per questo “dettaglio” che lo scrittore tenta di nascondere in tutti i modi, finendo per ingigantire il suo ruolo in quadretti militari che si concludono sempre con “gli aerei della Coalizione [che] il giorno dopo spazzano via tutto”. Alla fine pure il povero Cudi si stanca di fare l’eroe e taglia corto su uno degli episodi potenzialmente più avvincenti del racconto, la comparsa a Kobane del primo carro armato dell’Isis, che in un istante viene fatto sparire prima da un caccia e poi da un Predator.
La presenza dell’ingombrante Coalizione, una “Morte Nera” che, intonacata con gli allegri colori della bandiera curda, diventa benevola e progressista, pregiudica l’attendibilità di buona parte della ricostruzione, come dimostra -giusto per citare- il seguente passaggio, dove il narratore passa dalla fine del 2014 all’inizio del 2015 in un battito di ciglia:
«Verso la fine di novembre, prima della nostra avanzata […], gli aerei della Coalizione avevano colpito per giorni le linee dell’Isis, lanciando bombe da più di duecento chili guidate dai nostri spotter a terra. Osservando dal basso gli aerei, sentivamo che il mondo si riuniva attorno a noi. In seguito, dopo che a Parigi due islamisti ebbero massacrato dodici tra giornalisti e impiegati del periodico Charlie Hebdo, vedemmo una donna pilota francese sfrecciare per tutta la notte sulle nostre teste bombardando l’Isis un passaggio dopo l’altro. A un certo punto inviò un messaggio radio al nostro coordinatore da terra, dichiarando: “Anch’io sono un membro dell’YPJ [la branca femminile dell’YPG]”».
Il cecchino si sbilancia troppo anche sugli armamenti, nominando i fucili in dotazione ai curdi (Barrett, Dragunov, M16) e alimentando ulteriori dubbi su come se li siano procurati: come mi informa un lettore, il Barrett è un fucile semiautomatico di precisione calibro .50 in dotazione a eserciti occidentali, così come l’M16 (con tutte le varianti moderne) che non è tipicamente da cecchino ma può essere usato per ingaggiare bersagli fino a 300 metri, mentre il Dragunov è un fucile di precisione semiautomatico di fattura sovietica (reperibile in quelle zone anche nelle varianti romene e serbe).
Più spassosi i momenti in cui l’Autore irride l’islam (forte del fatto che nessuno lo accuserà mai di islamofobia) e racconta i lati più ridicoli degli “invincibili guerrieri” dell’Isis, che si mettono un cucchiaio in tasca prima di andare all’assalto per esser preparati ai banchetti paradisiaci, oppure bruciano i manichini nudi “per non cadere in tentazione nemmeno davanti all’efebica nudità di una bambolina di plastica”. Un po’ più crudele quando definisce “stupidi” i soldati (perlopiù di provenienza caucasica) morti in quantità industriale per essersi recati nello stesso punto divenuto un poligono di tiro per le bombe della Coalizione.
Anche da profugo il buon Azad non sopportava molto i musulmani: gli immigrati arabi di Leeds per lui sono dei fanatici fomentati “dall’atteggiamento ipocrita e pericoloso dell’imam”. Tutto giusto, però non possiamo fare a meno di sottolineare che lui stesso sia stato in un certo senso “radicalizzato” dall’ambiente della diaspora curda, che lo ha messo in contatto con le opere di Öcalan e lo ha aiutato ad andare a rimpolpare la “resistenza”. Del resto su questo punto, come su tanti altri, il Nostro non ha alcun dubbio: da una parte c’è il Kurdistan “libero, progressista e illuminato”, dall’altra c’è “un movimento reazionario, repressivo e contrario alla civiltà”.
Nonostante tali asprezze smussate dalla sua etnia, Azad sa il fatto suo ed è consapevole quali tasti toccare e quali no per solleticare il lettore anglofono: ecco perché da un lato rifiuta la comparazione della lotta curda con la rivoluzione spagnola in quanto espressione di eurocentrismo, ma dall’altro non disdegna di paragonarsi a Vasilij Zajcev a Stalingrado nel 1942 o a presentare un suo commilitone come “un Che Guevara dei nostri giorni”.
Purtroppo un attimo prima di ottenere la medaglia olimpica di paraculismo, se ne esce con una sparata anti-occidentale, rivolta in primis ai giornalisti, registi e politici piombati a Kobane dopo la fine della battaglia che “si comportano come ladri” e “vogliono solo rubare le nostre storie”, poi a tutte le nazioni della Coalizione, in particolare quelle europee, le quali “sono in debito con noi curdi” perché gente come Azad ha sterminato i jihadisti provenienti da Francia, Germania e Inghilterra, prendendosi così carico dei fallimenti della società multietnica. Acciderbolina.
È scontato che i media mainstream, i ragazzi dei centri sociali, i fumettisti d’assalto, gli analisti geopolitici, gli anti-imperialisti “coalizionisti” stenderanno comunque un velo pietoso sulle numerose “criticità” (come si dice oggi) poste dal mito curdo. Visto che siamo in ballo, balliamo: sosteniamo dunque la nascita di un enorme stato etnocentrico in Medio Oriente e rinfocoliamo le sue mitologie storiche politiche e belliche, cosa potrà mai andare storto?