Radical chic, femministe e progressisti di tutto il mondo sono attualmente impegnati in una nuova crociata: proclamare l’inesistenza di un “diritto al sesso”. There is no right to sex è lo slogan scandito fino allo sfinimento sulla grande stampa e sui social media: a quanto pare finalmente si è scoperto che la rivoluzione sessuale non aveva nulla a che fare con il sesso.
Come ha notato riguardo alla recente polemica sui “celibi involontari” Ross Douthat (uno degli ultimi intellettuali cattolici ammessi dal mainstream americano),
«al pari delle altre forme di deregolamentazione neoliberista, la rivoluzione sessuale ha creato nuovi vincitori e vinti, nuove gerarchie a sostituzione di quelle antiche, privilegiando i belli, i ricchi, gli spigliati e relegando tutti gli altri a nuove forme di solitudine e frustrazione» (The Redistribution of Sex, “New York Times”, 2 maggio 2018).
La risposta a tali osservazioni pacate e condivisibili è stata di una meschinità che è difficile (e anche superfluo) commentare, soprattutto perché la questione va oltre le semplici paranoie contro la manosphere: pochi anni fa la querelle coinvolse, tanto per dire, Amnesty International, che in un suo documento interno osò affermare che
«il sesso è un bisogno umano fondamentale e la criminalizzazione di coloro che, non essendo in grado di soddisfare tale necessità attraverso i metodi tradizionali, sono costretti a rivolgersi al sesso mercenario, costituisce una violazione del diritto alla privacy e una minaccia alla libertà di espressione e di salute».
È proprio il caso di dire che “chi semina vento raccoglie tempesta”: da decenni una élite impone alle masse la distruzione di qualsiasi istituzione tradizionale sventolando la promessa di un baccanale infinito, con l’unico risultato di aver portato a un darwinismo sessuale forse ancora più rigido (in quanto fabbricato “culturalmente”) di quello che regola le altre specie connotate da un accentuato dimorfismo.
Se tali sono le premesse, pare inevitabile una rivolta da parte di quei maschi della Generazione Y cresciuti in società dove all’ipersessualità sbattuta in faccia corrisponde una verginità forzatamente serbata ben oltre la maggiore età. Molti dei commenti dai forum della sfera maschile rispecchiano la frustrazione scaturita dal mancato adempimento dell’unica promessa della rivoluzione sessuale:
«La convinzione che l’ateismo avrebbe consentito alla gente di fare più sesso era enormemente propagandata nei primi anni Duemila, in coincidenza con la promozione di libri come Il Codice da Vinci. La sinistra continuava a raccontarci che fosse soltanto la Chiesa a impedire alle persone di avere rapporti sessuali. I maschi ci sono cascati, hanno ingoiato la favola dell’ateismo liberatorio e sono finiti per fare meno sesso di prima, con l’unico risultato di far aumentare oltre ogni limite il celibato maschile dal 2012 in avanti. Ironia della sorte: ora non c’è nemmeno più bisogno di farsi prete per rimanere celibe. Il celibato è adesso disponibile gratuitamente e universalmente, per gentile concessione dei “liberatori sessuali”» (fonte)
Tutto ciò richiama alla mente l’assunto delnociano de Il suicidio della rivoluzione: ogni rivoluzione fallisce nel momento in cui si compie. Il punto è fondamentale perché una lettura in tal senso non è stata ancora formulata: al momento i critici della rivoluzione sessuale si limitano a stigmatizzare quasi esclusivamente l’elevazione della trasgressione a norma, la quale avrebbe condotto all’abolizione del “limite” come unico sostegno al desiderio.
Soprattutto gli intellettuali cattolici (a parte il Douthat di cui sopra, che è un passo avanti) credono che il libertinismo prima o poi farà il suo tempo perché far troppo sesso toglierebbe significato all’atto stesso, o comunque dopo un po’ tenderebbe ad “annoiare” (ricordiamo un’arguta facezia: «Le posizione eretiche sono come quelle erotiche: poche e ripetitive»); ma per quel che possiamo osservare, semmai è la mancanza assoluta di sesso a indurre al rigetto.
Da tale prospettiva si può apprezzare il destino paradossale di qualsiasi rivoluzione, che appunto fallisce anche nel momento in cui si compie (e viceversa), nel senso che in un modo o nell’altro è costretta sempre a farsi tradizione. Soltanto ciò spiega il motivo per cui i più ferventi sostenitori del “mito libertino” siano gli stessi a negare con una veemenza ingiustificata qualsiasi “diritto al sesso”, quando questo era fondamentalmente l’unico motivo per cui venne innescata la rivoluzione dei costumi.
Nei prossimi anni la débâcle acquisterà inevitabilmente un significato politico, oltre che culturale e sociale, ma è probabile che nessuna ideologia tradizionale (nemmeno l’islam, che in occidente si presenta nelle forme del post-modernismo) sarà capace di capitalizzare una massa di maschi soli e arrabbiati. Nel migliore dei casi, si tornerà gradualmente allo statu quo ante (gli anni ’50 vanno bene a tutti?); altrimenti l’immaginario americano ha già provveduto a fabbricare affascinanti distopie, da La fabbrica delle mogli a The Handmaid’s Tale. In ogni caso il motto sarà sempre “Scopare meno, scopare tutti”.