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La scuola italiana rappresenta il disastro di una nazione

Oggi in molte regioni italiane comincia il nuovo anno scolastico, e l’Ansa registra, in termini piuttosto schietti, il disastro della nostra nazione:

“A entrare in classe saranno 7.286.151 studentesse e studenti per un totale di 366.310 classi nelle scuole statali. L’anno scorso c’erano e 7.407.000 studenti (277.840 con disabilità) e 368.656 classi. L’anno scolastico 2020/21 era iniziato con 7.507.000 studenti (268.700 con disabilità) e 369mila classi. In due anni si sono persi quindi più di 220mila studenti e 3mila classi, mentre gli alunni con disabilità sono cresciuti di quasi 22mila unità, facendo quindi registrare un aumento dell’8%. Le cosiddette classi pollaio ‘resistono’ solo alle superiori: negli ordini inferiori il calo demografico e quindi della frequenza scolastica è impressionante. Il sindacato Anief calcola che in 15 anni sono stati persi 800 mila alunni“.

Questi 800mila alunni che si sono “persi”, non c’è quasi più bisogno di specificarlo, sono tutti italiani. La percentuale di alunni stranieri sul totale sfiora ormai il 12%, con un picco tra il 35 e il 40% alla scuola primaria: mancano i dati precisi perché quelli del Ministero risalgono all’anno scolastico 2018/2019, tuttavia ci si può fare almeno un’idea aggiornata della situazione consultando le statistiche regionali o comunali.

Per esempio, come ci informa l’edizione veneta del “Corriera della Sera” (10 settembre 2022), a Verona

“negli ultimi cinque anni gli studenti totali sono calati di 3.276 unità, trascinati in giù dal -4% degli italiani, gli stranieri sono aumentati invece dell’8%. Cioè sono passati dai 19.931 nell’anno scolastico 2017/18 ai 21.618 della scorsa annata, il 16% del totale, 1.687 alunni in più. […] Dai 134.006 di un lustro fa [2017], gli alunni tra città e provincia sono scesi l’anno scorso a 130.730 e nello stesso arco di tempo la quota di studenti di cittadinanza italiana si è ridotta a 109.112 contro i 114.075 di cinque anni prima: -4.963 unità“.

Una scuola di Pietrabruna (Imperia) è stata chiusa dal Ministero perché degli otto alunni presenti quattro erano marocchini, tre ucraini e uno italiano. Per legge gli alunni stranieri in una classe non dovrebbero superare il 30%. Come scrive Repubblica, “neppure l’arrivo di un bambino ucraino che avrebbe consentito di raggiungere il numero minimo per consentire la formazione della classe per il prossimo anno scolastico, è servito”.

Si usa il condizionale perché in realtà in molte classi la percentuale di stranieri è ben oltre la soglia. Nel 2017 una scuola di Mestre (Venezia) ha raggiunto picchi del 96% di alunni stranieri per classe, tanto che la dirigente ha dovuto introdurre un limite:

“Una classe è composta da 24 bambini bengalesi e un solo italiano e le lezioni procedono a rilento perché gli alunni stranieri non riescono a parlare con la maestra e i mediatori culturali sono troppo pochi. Le bambine di religione musulmana, per motivi religiosi, non possono suonare il flauto e, quindi, non partecipano all’ora di musica e quelle di 8-9 si presentano a scuola col velo. La Preside ha stabilito che dall’anno prossimo nelle nuove classi la percentuale di stranieri non potrà superare il 40%, sfruttando le possibilità date da una circolare del 2010 del ministero dell’Istruzione che consente di abbassare il limite fino al trenta” (fonte).

Il problema rappresentato dalla presenza esorbitante di alunni stranieri non può tuttavia riguardare solo l’islam, anche se a periodi torna di moda ridurre tutto a motivi religioso-culturali (ma per fortuna o purtroppo non siamo in Francia). In realtà, il primo problema è che è vietato pensare che troppi stranieri (non solo a scuola) siano un problema. Ancora oggi vale il paradigma pseudo-sessantottino secondo il quale l’immigrazione è un “arricchimento” nelle aule come nelle periferie o nei campi di pomodori, e che gli unici problemi che potrebbero insorgere sarebbero causati da un presunto “classismo” delle varie istituzioni (istituzioni peraltro ormai gestite tutte da ex-rivoluzionari). Le soluzioni proposte sarebbero di abolire le bocciature o renderle impossibili attraverso una “personalizzazione” all’estremo dei percorsi scolastici.

Ovviamente questo è ciò che i piddini dicono in pubblico: tuttavia, avendo fatto per qualche anno l’insegnante, ho appreso che in “privato” la pensano in tutt’altro modo. Non c’è bisogno di registrazioni nascoste o leaks per immaginare i commenti anche del progressista più integerrimo di fronte alle formazioni di nuove classi in cui la presenza di alunni stranieri (di prima o seconda generazione o italo-qualcosa) raggiunga il 60-70% e i picchi di disabilità (nella stragrande dei casi psichica e non fisica) tra di essi sfiorino l’80-90%.

Potrei copia-incollarvi solo l’elenco degli alunni delle prime elementari che si sono formate l’anno scorso (quando ho smesso di insegnare causa Green Pass) per offrirvi un “caso di studio”. Ma è una cosa che non dovrebbe fare un blog demenziale come questo: certe ricerche andrebbero promosse, se non direttamente dal Ministero, almeno da qualche istituzione privata. Invece si va avanti così: applausi a tutta pagina, ius murmurandi in aula insegnanti. L’esito è prevedibile: la scuola pubblica decadrà sempre più velocemente in favore sia di un nuovo sistema di scuole elitarie (per chi se le può permettere) sia della cosiddetta “istruzione parentale/domiciliare”. In pratica gli anti-classisti in cattedra da oltre cinquant’anni saranno riusciti a creare la scuola più classista che lo Stato italiano abbia mai conosciuto.

Visto che però io non lavoro più nella scuola (e non ho più nemmeno un lavoro!), posso permettermi di parlare apertamente. In primo luogo riconoscendo l’esistenza del problema (e siamo già ad un passo dalla Digos) e analizzandone le cause che lo rendono per l’appunto un problema da una prospettiva unbiased, come direbbero i tecno-democratici. E il motivo principale risiede nel divario cognitivo tra alunni italiani e stranieri: la questione è sentita anche dai docenti più politicamente corretti, che tuttavia la mascherano in forma di divario linguistico. Anche nelle loro riviste, pur considerando opinione avvilente pensare che “la presenza di ragazzi stranieri indebolisce la classe e impedisce ai [ragazzi italiani] di andare avanti con il programma”, una riga dopo ammettono che per gli alunni stranieri “il vero, grande ostacolo che impedisce loro di partire alla pari con i loro compagni” sarebbe proprio “la conoscenza della lingua italiana”.

Certo fa un po’ ridere continuare a parlare di “divario linguistico” nel caso di bambini nati e cresciuti in Italia, ma le giustificazioni possono divenire potenzialmente infinite, dal fatto che “in casa non si parla italiano” (anche in quelle dove all’educazione ci pensano la tv e youtube) alla solita retorica donmilanista.

Però il punto è che il divario linguistico spesso dipende dal divario cognitivo, e per comprendere l’essenza della difficoltà bisogna rifarsi a dati concreti. Per esempio, prendendo le statistiche internazionali sul quoziente intellettivo e notando che in media gli immigrati che giungono nel nostro Paese hanno un’intelligenza ben al di sotto della fatidica “quota 100”. Giusto per citare, prendendo come riferimento una fonte qualsiasi (e considerando che anche le fonti più “istituzionali” sono comunque basate sulle ricerche del professor Richard Lynn, considerato un “razzistone” ma incancellabile per la sua statura accademica e scientifica): la media italiana è 97, quella romena 90, quella albanese 84, quella egiziana 83, quella marocchina 82, cingalese 79, quella bengalese 77, quella nigeriana 70 e quella senegalese 60.

L’argomento è tranchant ma non si capisce perché non si dovrebbe parlarne anche nei termini più corretti possibili, specie considerando la progressiva “invalsizzazione” del settore dell’istruzione pubblica che ci sta conducendo verso le derive della “distribuzione di fondi tramite algoritmo”: ma quale criterio dovrebbe stabilire che, a parità di quoziente intellettivo, un alunno straniero abbia più diritto a fondi, sostegno e “percorsi speciali” di un italiano, semplicemente perché quest’ultimo è comunque madrelingua e dunque “avvantaggiato”? Se l’esempio è nebuloso è perché, per opportunità, non posso riportare un caso concreto, ma prima o poi, con l’avanzare nella scuola dell’ideologia cosiddetta “intersezionalista”, cominceranno ad emergere dalla cronaca piccole e grandi ingiustizie generate dal “punteggio di discriminazione” di cui un alunno dovrebbe godere.

Andiamo avanti. Un secondo argomento che si dovrebbe portare riguarda la demografia, ma anche qui domina la schizofrenia. Le politiche di finanziamenti e bonus per rilanciare le nascite non funzionano perché la questione è prettamente culturale, tanto è vero che il tasso di natalità tra immigrati si mantiene alto solo perché continuano ad arrivarne di nuovi. Cerchiamo di capire la situazione: tutti i partiti italiani affermano che è necessario regolare i flussi migratori. C’è chi vorrebbe distinguere gli ingressi di stranieri suddividendoli tra “veri” e “falsi” profughi, chi invece vorrebbe calibrarli in base alle esigenze dell’imprenditoria italiana (questione che attualmente preme più alla sinistra che alla destra) e chi vorrebbe immigrazione di “qualità”, qualsiasi cosa significhi. Lasciamo stare la politica e partiamo da un’osservazione semplice: gli stessi che ci dicono che dobbiamo mantenere un tasso stabile di natalità per consentire alle nostre società di sopravvivere soprattutto da un’ottica previdenziale, sono quelli che però prediligono come modelli la donna liberata e l’uomo dall’orientamento sessuale incerto (di conseguenza offrendo come unico modello positivo di natalità quello dell’utero in affitto da parte di una coppia di omosessuali), o che comunque hanno passato parecchi decenni a fare il tifo per lo spopolamento.

Bene, accettiamo questo modello: ma se viene affermato che l’unico modo per sostenere il sistema è far arrivare gli immigrati, che però vanno integrati e dunque inseriti in un sistema che dissuade dal far figli, quale soluzione resta se non la necessità di lasciar passare chiunque in maniera che i “non integrati” continuino a procreare? Da una prospettiva meramente pratica i politici ci stanno mostrando come l’integrazione sia insostenibile sia sul lungo che sul breve periodo (non passi in secondo piano che il tasso di natalità tra le donne immigrate è crollato nel giro di pochissimi anni, a dimostrazione di quanto profondamente la cultura “anti-natalista” permei le società occidentali).

Eppure vogliono l’integrazione, ma anche la disintegrazione per avere nuovi non-integrati da integrare. Con questo modello, qualsiasi prima elementare del Paese da qui a cinque anni diverrà ingestibile. Per immaginare cosa saranno tra poco la maggior parte delle classi italiane, si può far riferimento a una testimonianza di una madre del 2017, che a Modena ha dovuto portar via sua figlia da una seconda elementare perché era rimasta l’unica italiana:

«Con mia figlia non ci giocava e non ci stava nessuno, le ho fatto cambiare scuola. […] Mia figlia ha sempre invitato [i compagni] a casa a fare i compiti, ma loro non sono mai venuti, e alle feste che facevano gli altri non veniva mai chiamata. Durante la ricreazione gli altri gruppi etnici della classe si mettevano insieme senza considerarla, perché era diversa da loro. […] Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile. […] La madre marocchina di una compagna ha istigato sua figlia a minacciare la mia, e lei si è messa a piangere».

Non vedo soluzione politiche all’orizzonte per questi problemi. Ormai il cammino sembra già tracciato, ed è quello a cui si accennava più sopra: aumento esponenziale di classi-ghetto a fronte del fenomeno che gli americani definiscono white flight (la “fuga dei bianchi” dai quartieri difficili); indebolimento dei programmi scolastici con possibilità di infiltrazione offerta a qualsiasi ideologia alla moda (terzomondismo, islamofilia, buonismo, intersezionalismo ecc); impossibilità, infine, di poter insegnare alcunché. Ancora classi-pollaio, dunque, ma più per la qualità che per la quantità.

Poi, per motivo di ordine pubblico, si può discutere se sia meglio far gestire il percorso di gentrificazione scolastica a una destra razzista, xenofobica e classista, o se invece sia ancora necessario delegare alla sinistra il compito di indorare la pillola con il maternage, le bandierine arcobaleno e i film sull’olocausto.

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