Quando ancora il conflitto tra Russia e Ucraina (le cui origini risalgono a ben prima del 24 febbraio 2022) non campeggiava sulle prime pagine internazionali instillando nell’opinione pubblica il terrore di uno scontro termonucleare globale, all’inizio del suo pontificato Papa Bergoglio aveva già trovato il modo di stigmatizzare il clima da Terza Guerra Mondiale in fieri, affermando che in quel momento (era il 2014) la si stesse combattendo “a pezzetti” (sic).
Questo dettaglio di per sé indica una certa ambiguità nell’espressione “Terza Guerra Mondiale” che del resto, sempre guardando alla storia recente, per circa vent’anni è stata utilizzata dagli intellettuali neoconservatori d’oltreoceano per definire il confronto verificatosi tra Stati Uniti e Unione Sovietica, conclusosi nel 1989 con la vittoria del “mondo libero”: il motivo era indispensabile per definire i contorti della Quarta Guerra Mondiale, che divenne un mantra dei falchi repubblicani (come esempio per tutti vale il titolo di un volume del 2007 di Norman Podhoretz, World War IV. The Long Struggle Against Islamofascism).
Nei meandri delle newsletter e dei forum di “esperti”, in questi anni è pure emersa l’idea che la WWIV sia stata vinta verso il 2016 (tutto sommato per trionfare è bastato che Washington smettesse di finanziare i fondamentalisti islamici dalla Bosnia alla Siria) e che ora l’America debba affrontare la Quinta Guerra Mondiale contro il blocco russo-cinese.
Al di là delle battute, la questione è tutt’altro che “di lana caprina”: il nome con cui ci si riferisce a una guerra è indice dei criteri con cui la si interpreta. È per questo che i russi definiscono “Grande guerra patriottica” la Seconda Guerra Mondiale, e che il Parlamento ucraino nel 2015 ha vietato di utilizzare l’espressione come parte di una serie di norme per favorire la decomunistizzazione definitiva del Paese.
Per simili motivi, nelle aule scolastiche italiane fino a pochi decenni fa la Prima Guerra Mondiale veniva presentata come “Quarta guerra d’indipendenza”, prima che prevalesse la lettura unilaterale del conflitto quale inutile strage, prendendo a prestito la storica espressione di Benedetto XV dell’agosto 1917.
Qualcuno ricorderà che nell’inutile quadruplicazione del “centenario” (2014-2018) della Grande Guerra voluta dalle istituzioni eurocratiche, tale definizione subì un vero e proprio processo di “appropriazione indebita” a puro scopo di propaganda, con l’obiettivo di solidificare un concetto -inesistente- di post-nazionalismo che vedrebbe l’Europa-Nazione, anzi la “Nazione Europa”, come espressione di un sovranismo alternativo e benevolo a quello dei singoli Stati.
Posto che l’appello di Benedetto XV non fosse riferito al conflitto in sé (una volta i pontefici non commentavano le gazzette del giorno prima), quanto alla modalità della guerra di trincea (perché un cristiano non può conferire alla “pace” una positività assoluta, ma la discussione è ovviamente complessa e non può essere affrontata in una parentesi), una conseguenza della negazione del “senso della guerra” si riflette esattamente nell’attuale propensione a interpretare qualsiasi avvenimento come prodromo a un conflitto mondiale.
La paranoia del “gesto eclatante” è piuttosto diffusa a tutti livelli; in una rivista patrocinata dalla BBC, uno storico come Christopher Clarke anni fa (Lo sparo che fece 10 milioni di morti, “BBC History”, n. 20, dicembre 2012) trovò il coraggio di scrivere questo:
«L’assassinio di Sarajevo è presentato in molti resoconti come un pretesto, un evento poco legato alle forze reali, la cui interazione scatenò la guerra. La verità è che l’omicidio dell’arciduca presentò alle autorità austro-ungariche una sfida che esse non poterono permettersi di ignorare. Per trasmettere il senso della gravità della situazione nella prospettiva di allora, dobbiamo semplicemente chiederci come risponderebbero oggi, ad esempio, gli Stati Uniti di fronte all’assassino di un presidente eletto e di sua moglie da parte di un commando addestrato a Teheran».
Le americanate non fanno meno ridere delle “eurocazzate”, in specie allo stato attuale quando le istituzioni dell’UE annunciano faraonici piani di riarmo contro non si sa ben quale nemico (e nemmeno a fianco di quale alleato!). Gli italiani tutto sommato si stanno dimostrando piuttosto “moderati” nell’accettare il delirio che giunge da Bruxelles: sarà per una forma mentis acquisita in un lunghissimo dopoguerra dove le ambiguità delle “alleanze” tra Occidente e Oriente sono state indissolubilmente legate a una prosperità mai esperita in secoli?
Non so se questa ipotesi corrisponda alla verità, ma di di certo si tratta di una lettura meno indisponente di quella che ci vorrebbe eterni “pacificatori” in grado di mettere d’accordo ogni capo di Stato con un piatto di spaghetti e un buon bicchiere di vino (ayatollah compresi?). Gli italiani al contrario sono un popolo decisamente bellicoso, dal momento che fondano la loro stessa identità sul conflitto perpetuo con le altre potenze europee.
Anche l’aver ribattezzato la “Quarta guerra d’indipendenza” come “Inutile Strage” non ha potuto smorzare l’aura di “necessità” che ha comportato tra il XIX e il XX secolo in termini il costituirsi del piccolo feudo anglo-mafioso dove viviamo: questo delirio ab origine si riflette sia nei paradossi della retorica resistenziale (puro distillato di “ultima guerra dell’umanità”, per evocare spettri schmittiani) sia nelle contraddizioni evidenti rappresentate da qualsiasi movimento pacifista nazionale, che non a caso dal 2022 scende in piazza per chiedere un intervento diretto delle potenze europee contro la Russia.
Dal momento che si è richiamato, come al solito, Carl Schmitt, è giusto concludere con qualche rassicurazione sull’impossibilità attuale di una Terza Guerra Mondiale, che viene da questo simpatico nonnino nazista. Uno dei punti fondamentali della lettura schmittiana è che nel panorama internazionale delineato dalla Seconda Guerra Mondiale non esisterebbe più (o non esisterebbe ancora) un luogo fisico in cui combattere la “Terza”.
Se pensiamo all’intero mappamondo, un dato di fatto di cui ci rendiamo immediatamente conto è che l’habitat elettivo di ciò che chiamiamo “Guerra Mondiale” è notoriamente l’Europa: se per assurdo in questo istante scoppiasse un conflitto tra Cina e Giappone e intervenissero americani e russi, tutto ciò non potrebbe essere definito ancora World War 3. Lungi dall’essere un sintomo di “eurocentrismo“, questa assunzione viene inconsciamente accettata persino dai popoli extraeuropei (lato sensu), che sembrano detenerne ancora una qualche istintiva consapevolezza, nel momento in cui nessuno potrebbe neppure a ipotizzare un eventuale scontro fra Pechino e Tokyo se non come conseguenza di qualche fatto inimmaginabile accaduto a Occidente (nonostante le migliaia di pretesti che entrambe le nazioni avrebbero disponibili in loco).
Da tali presupposti, Carl Schmitt ha tentato di elaborare una previsione verosimile di cosa sarebbe stata la guerra in un’epoca di Dopoguerra (in senso assoluto), riuscendo a intravedere un qualche scenario fantapolitico, seppur senza poter comprenderlo fino in fondo (meno per limiti di prospettiva o intelligenza, che per i solchi che la sconfitta tedesca ha lasciato nel suo animo).
Lo “scenario” di cui discutiamo si sviluppa da un tema apparentemente secondario nell’opera del giurista tedesco, che tuttavia compare con una certa frequenza in essa: quello del Pianeta Misterioso. È questo un pregevole tentativo di “guardare oltre”, che per vari motivi non è mai stato approfondito, e anzi è rimasto circoscritto a una boutade nella “Presentazione” a Il nomos della terra (tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano, 1991):
«L’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra. Questo era scaturito dalla favolosa e inattesa scoperta di un nuovo mondo, da un evento storico irripetibile. Una sua ripetizione moderna si potrebbe pensare solo in paralleli immaginari, come se ad esempio uomini in viaggio verso la luna scoprissero un nuovo corpo celeste finora del tutto sconosciuto, da poter sfruttare liberamente e da utilizzare al fine di alleggerire i conflitti sulla terra. La questione di un nuovo nomos della terra non può trovare una risposta in siffatte fantasie».
Sfortunatamente il buon Schmitt ha sfortunatamente liquidato un’intuizione così promettente come “fantasia”, nonostante avrebbe avuto gioco facile nell’integrare il “nuovo corpo celeste” in un punto specifico della sua dottrina, quale pianeta disabitato, che replica la «comparsa di spazi liberi immensi» fornendo le basi a un rinnovato Jus Publicum Europaeum, oppure satellite popolato da alieni, la cui comparsa, al pari di una hegeliana astuzia della Ragione, avrebbe offerto finalmente ai terrestri la possibilità di dare un senso alla parola “umanità” al di là della criminalizzazione del nemico.
Non si tratta, ancora, di divagazioni, poiché se nel passaggio citato il filosofo sembra avvalorare l’ipotesi di una res nullius intergalattica, in altro luogo ricompare lo stesso corpo celeste, questa volta abitato (cfr. Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 139):
«L’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, perché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta».
Anche nella suggestiva Teoria del partigiano (cur. F. Volpi, Adelphi, Milano, 2005, pp. 111-112) l’Autore avanza timidamente l’idea di una “dimensione interplanetaria” del conflitto, senza però accennare nemmeno alle caratteristiche del “cosmo-partigiano” (di cui invece tratta il compianto Franco Volpi nella postfazione).
In effetti è curioso che a un certo punto Schmitt non si sia messo a parlare di “corsari dello spazio” (nonostante egli proponga il parallelo tra guerra partigiana e privateering, nonché tra il partigiano e il sottomarino) o di uno Jus Publicum Universale generato dal nuovo equilibrio terra-mare, declinato nel senso di “Terra” come pianeta e “Mare” come spazio intergalattico.
Pare sia stato proprio un certo risentimento da “vinto” a impedirgli di riconoscere queste analogie, attraverso le quali avrebbe indirettamente conferito una qualche nobiltà alla nostra epoca; in diversi passaggi la sprezzatura emerge chiaramente:
«All’ombra dell’odierno equilibrio atomico delle potenze mondiali, sotto la campana di vetro, per così dire, dei loro giganteschi arsenali distruttivi, potrebbe ritagliarsi uno spazio destinato alla guerra limitata e circoscritta condotta con armi e perfino mezzi di distruzione tradizionali, sul cui dosaggio le grandi potenze potrebbero apertamente o tacitamente accordarsi. Questo provocherebbe una guerra controllata da quelle potenze, e sarebbe una specie di dogfight» (Teoria del partigiano, pp. 110-111).
Idealizzare il “modello Vestfalia” come l’unico in grado di limitare la guerra e nel contempo farsi beffe del nuovo equilibrio internazionale perché parla inglese e russo (invece che tedesco) è una posizione intellettualmente poco onesta. Uno come Schmitt, che si vuole così “spregiudicato” nelle sue analisi (tanto da essere definito da taluni come “il Nietzsche della filosofia politica”), non è immune da una certa Romantik: la sua concezione idillica del “legame con la terra”, per esempio, lo porta a descrivere con toni patetici l’azione di un esercito di terra che manterrebbe «una relazione positiva con il territorio occupato e con la sua popolazione» (Il nomos della terra), in contrapposizione alla flotta che agirebbe invece “di forza” e “in modo coercitivo” (per non dire del Partigiano raffigurato quale “eroe tellurico”, un altro eccesso di idealizzazione che compensa le ingenue considerazioni a cui si è accennato).
Dopotutto, ciò che ancora chiediamo a Schmitt (senza però ricevere risposta) è di indicare un theatrum belli consono all’era atomica. Nella sua “teoria degli elementi”, accanto a Terra e Mare, e all’Aria (che interviene a spezzare l’equilibrio), manca il Fuoco. Stiamo parlando non solo del fuoco della contraerea che riporta la cosiddetta “guerra aerea autonoma” a una dimensione orizzontale del conflitto, ma anche di un altro tipo di fuoco, quello nucleare, che dopo l’agosto 1945 non è più stato “riacceso”. Come è stato possibile?
In questo campo abbondano non solo le spiegazioni provvidenzialistiche (soprattutto da parte degli atei), ma anche quelle che filosoficamente potremmo definire anti-timotiche, riassumibili nella formula “equilibrio del terrore”: improvvisamente, gli uomini sarebbero diventati tanto razionali, sensibili e pacifici, da riuscire a fermarsi a un passo dall’apocalisse. Questa interpretazione, oltre a essere al contempo ottimistica e demoralizzante (perché toglie all’essere umano sia il coraggio che l’incoscienza), contraddice la fondamentale legge di Murphy: Se qualcosa può andar male, lo farà. Volendo tuttavia accettare un’evoluzione inspiegabile nella coscienza della specie, dovremmo comunque riconoscere che a impedire l’apocalisse nucleare durante la Guerra fredda non contribuirono solamente l’equilibrio del terrore o la “lotta tra cani”.
Se avessimo una sensibilità hegeliana, potremmo affermare che l’atomica sia comparsa nella storia al momento giusto, ovvero in concomitanza con le prime spedizioni nello spazio. In tal modo diventerebbero ancora più plausibili le analogie tra l’oltremare, «un campo in cui si afferma il libero e spietato uso della violenza» (Il nomos della terra) e l’oltrespazio, o ancora meglio tra la scoperta delle Americhe, che «servì […] a limitare la guerra europea», e la colonizzazione di nuovi pianeti.
L’elemento del “fuoco” potrebbe dunque scatenarsi nello spazio intergalattico, l’unico luogo fisico in cui sia lecito atomizzare l’avversario senza condurre una guerra di sterminio? Tutto sommato questo potrebbe essere quasi un “lieto fine” (si fa per dire): il Pianeta Terra, divenuto una confederazione universale di nazioni (o di agglomerati sovranazionali), “scaricherebbe” il conflitto tra la Luna, Marte e Urano (ma chi si azzarderebbe a colonizzarlo per primo?).
Qualcosa tuttavia non torna. È vero, infatti, che gli uomini non hanno smesso di farsi la guerra: sembra anzi che l’aspirazione a costituire enormi raggruppamenti di Stati su modello delle superpotenze orwelliane (Eurasia, Estasia e Oceania) rappresenti inconsciamente il desiderio di creare lo spazio bellico adatto alla guerra atomica.
Inoltre continua a sussistere l’obbligo di individuare un “nemico assoluto” su cui finalmente replicare Hiroshima e Nagasaki in grande stile. Per certi versi, l’Isis era comparso al posto giusto e al momento giusto, anche se più che a un agnello sacrificale assomigliava al famigerato pollo del gioco delle tre carte: tanto è vero che, senza turbare in alcun modo i sonni degli “ucrainisti” attuali, i russi hanno sperimentato sugli improvvisati “islamofascisti” le armi più micidiali che si possano utilizzare prima di quelle atomiche.
È un fatto tuttavia che chi detiene (almeno per il momento) la superiorità tecnologica in campo bellico non potrebbe analogamente gloriarsi di adoperare armi del genere: non solo perché l’alibi umanitario è svanito nel brevissimo passaggio da un millennio all’altro (1999-2001), ma anche perché dopo un decennio di “inutili stragi” (questa volta la definizione calza a pennello), di Vietnam replicati più per motivi ideologici che strategici, gli Stati Uniti non sono nemmeno in grado di concepire uno spazio bombardabile che non si trovi tra l’Africa e il Medio Oriente (per questo chi si oppone agli americani dovrebbe evitare di “territorializzarsi” in luoghi suscettibili di nuclearizzazione).
Col nuovo secolo è emersa altresì una tendenza inedita nell’inconscio collettivo, soprattutto grazie alla piena diffusione di internet: la necessità di catalogare tutto l’esistente per conservarlo in eterno. Già ai tempi dell’intervento NATO nei Balcani diversi commentatori paventarono la minaccia per alcune specie protette della flora e della fauna locali (non parlavano di umani): ricordo che venne persino avanzata la proposta di clonare gli animali a rischio di estinzione (d’altronde erano i tempi della Pecora Dolly).
Oggi che queste tecnologie si fanno sempre più “democratiche”, la catalogazione è divenuta quasi un obbligo: si vedano per esempio gli scienziati siriani che all’inizio della guerra civile hanno provveduto a inviare tutte le sementi nazionali allo Svalbard Global Seed Vault, oppure all’impegno assunto da alcune imprese (anche italiane) di restaurare i monumenti distrutti dall’Isis a Palmira per mezzo di stampanti 3D. Non è da escludere in futuro l’eventualità che, una volta nuclearizzato un Paese, l’aggressore venga poi costretto dallo “spirito dei tempi” a ricostruirlo esattamente com’era.
Per tirare le somme (e non le cuoia): l’unica Terza Guerra Mondiale che può essere definita come tale dovrebbe essere combattuta in Europa, ma ciò, almeno nella pratica, è –quasi– impossibile; di conseguenza le superpotenze ricorrono a ogni tipo di espediente nell’attesa che finalmente emergano degli “spazi nuovi” in grado di garantire un theatrum belli per la guerra atomica (questo potrebbe forse spiegare la tendenza attuale di alcuni Stati ad agglomerarsi, per garantire una “periferia” annichilabile a fronte di un “centro” da salvaguardare).