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La sindrome della torre d’avorio

Non voglio partecipare alla polemica che ha coinvolto Michele Serra per un suo editoriale nel quale, in sostanza, accolla il bullismo ai figli dei poveri, pur comprendendo che sintetizzare in tal modo la sua “Amaca” sia anch’esso un modo per polemizzare. Tuttavia mi sembra alquanto superfluo perdersi in troppi giri di parole, visto che Serra ha scritto proprio quanto gli si imputa:

«Il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza».

Giudizio in sé falsissimo, ma che se avesse anche un briciolo di verità non andrebbe comunque espresso, per coerenza nei confronti di una società che difende il politicamente corretto ai limiti dello stalinismo. Eppure non mi è parso che ci sia stata molta censura a sinistra, anche se lo “scandaletto” è comunque scoppiato; finora però le critiche più ficcanti le ho sentite solo da Maurizio Crozza, nella sua bella trasmissione dirottata su uno sperduto atollo catodico:

Non so neppure se si possa definire una critica “da sinistra”, poiché ormai a stupirsi che la sinistra non stia dalla parte dei poveri sono rimasti solo quelli di destra, come è emerso anche dal polverone mediatico che ha seguito le infelici parole di Serra. È un concetto peraltro paradossale, poiché proprio “a destra” dovrebbe essere più profonda la consapevolezza che i rivoluzionari di oggi saranno i padroni di domani. Maurizio Crozza ha illustrato la “dinamica” nel modo più semplice possibile, ma gli esempi da fare sarebbero centomila, senza neppure dover scomodare la storia con la S maiuscola: pensiamo al grillismo, a Mani Pulite, ai sessantottini…

Forse un caso più “raffinato” da ricordare è quello di Asor Rosa, così come illustrato da Fausto Gianfranceschi nell’indispensabile Stupidario della sinistra (1992), in cui mettendo in fila due citazioni del Venerato Maestro, una del 1980 e una del 1991, crea uno straniamento micidiale: nella prima, il critico giudica negativamente la minima “borghesizzazione” della classe operaia, che non deve “sporcarsi” con la diabolica “proprietà”; nella seconda, coerentemente, afferma che la “massa” deve esser tenuta fuori dagli horti conclusi della sinistra perbene.

Con questo, e anche con una buona dose di cinismo e disillusione, si potrebbe riassumere l’intera storia della civiltà umana. Sembra quasi che il potere abbia una sua propria natura che a un certo punto imprigiona chi si rifiuta di riconoscerla. Il rivoluzionario si fa beffe dei potenti, li schernisce, li ridicolizza, li colpevolizza, fin quando non è costretto a rimpiazzarli: ma è sempre vino nuovo in otri vecchi.

Credo che per cominciare a ragionare sulla profonda contraddizione di qualsiasi rivoluzionario, dovremmo coniare un nuovo termine: torrivorismo. Non so se suona bene, ma finora mi sembra l’unico in grado di esprimere la “sindrome della torre d’avorio” che inevitabilmente coglie qualsiasi “combattente per la giustizia sociale” (per usare un altro neologismo, proveniente da oltreoceano dove, seppur nella loro “barbarie”, la destra sta forgiando tutto un lessico per impossessarsi intellettualmente del presente).

Dopo aver passato una vita confondendo la lotta contro i “potenti” con quella contro il “potere”, una volta premiato dal successo l’agit-prop (ma sì, rispolveriamo anche qualche termine del passato) si trova di punto in bianco alle prese con una realtà della quale aveva negato l’essenza fino a un attimo prima. Di conseguenza, si trova costretto a difendere la torre d’avorio con metodi ancora più spietati dei suoi predecessori, proprio perché “preso alla sprovvista” dall’effettività di tutto ciò che fino a quel momento aveva considerato flatus vocis.

C’è un bel romanzo di Roy LewisLa vera storia dell’ultimo re socialista (1980), che racconta perfettamente il tipo di dinamica di cui abbiamo parlato finora. Tornare più indietro, fino ai controrivoluzionari francesi (che hanno comunque un peso misconosciuto nella destra contemporanea), sarebbe pericoloso, poiché si rischierebbe di cadere nell’immanentismo, proibendosi di cogliere le opportunità che ogni epoca offre. Infatti, rispetto al “torrivorismo”, un lato positivo che si può immediatamente evidenziare è la possibilità di trasformare quel senso di colpa così ingenuamente bistrattato da Nietzsche in un sistema di protezione valido per entrambe le parti, soprattutto per chi, in basso, potrà strumentalizzarlo allo scopo di “umanizzare” il potere o tenerlo sotto il ricatto di una perenne crisi di legittimità o di un’altrettanto perenne cattiva coscienza.

Nel caso particolare, è chiaro che chi è finalmente arrivato in alto converrebbe “rimettere chi sta in basso al suo posto”, magari cogliendo al volo l’occasione di generalizzare indebitamente un semplice fatto di cronaca: epperò non può farlo, proprio perché ostacolato dalle centinaia di contraddizioni generate dalla sua stessa “scalata”.

Dunque, in conclusione, non è poi così male la deriva “torrivorista”, nella misura in cui ci consente di non vivere “in tempi interessanti” (come quella maledizione cinese sulla quale Žižek ha costruito un libro), cioè in un’era dove è talmente scontato che chi prenderà il potere si comporterà esattamente come chi lo possedeva in precedenza da rendere inutile la stessa idea di “rivoluzione”. Non so se il “miracolo” sia possibile, ma Dostoevskij con I demoni era perlomeno riuscito a far slittare la rivoluzione russa di quattro decenni: purtroppo poi i “tempi interessanti” sono arrivati ugualmente, ma in compenso il “senso di colpa” aveva già iniziato a erodere il bolscevismo sin dal principio, impedendogli appunto di portare alle estreme conseguenze le proprie intenzioni.

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