Sui social impazza un nuovo trend tutto al femminile: fare la gara al numero di maschi con cui ci si riesce ad accoppiare in un giorno. Ora l’asticella è stata alzata (absit iniura verbis) a 100 esemplari, ma l’attuale detentrice del titolo (la britannica -non mi dire!- Lily Phillips) ha promesso di arrivare a 1000 (mille) uomini in 24 ore.
Le selezioni sono piuttosto spietate: non solo i prescelti devono sborsare una certa cifra tramite quel sistema di riciclaggio dei proventi della prostituzione chiamato OnlyFans (che comunque prima che arrivassero i soliti noti era solo un mezzo per aiutare i “creatori” esordienti a sostentarsi con lezioni di fitness, chitarra o cucina), ma devono anche essere giovani, di bell’aspetto e vestiti alla moda.
Forse è questo il motivo per cui da un’ormai classica challenge muliebre è scaturita una jacquerie da parte degli stessi obesoni sub7 che fino a dieci anni fa avrebbero plaudito e propagandato un’iniziativa del genere. Parlo, ovviamente, dei famigerati M’Lady Atheist (penso qualcuno ricorderà il meme Tips Fedora), che dopo secoli o millenni di azzerbinaggio hanno aperto gli occhi sulla tendenza a quanto pare innata delle d-parola al puttanesimo e adesso si scatenano invocando il ritorno di Savonarola, o almeno di Ratzinger: «Da ateo, mi sono sempre chiesto perché la religione fosse una parte fondamentale di quasi tutte le grandi civiltà, ora me lo chiedo sempre di meno».
As an atheist, I used to wonder why religion was a central part of pretty much every major, sustainable civilization in every place humans have ever lived throughout history.
Lately, I find myself wondering less and less. https://t.co/zKuRUbrOzv
— Zarathustra (@zarathustra5150) October 25, 2024
Obiettivamente tale situazione spalanca praterie infinite a una sublime schizoteoria: gli uomini occidentali si trovano mutatis mutandis in una situazione molto simile a quella della massa dei primi agricoltori europei (oggi conosciuti come “betacucchi neolitici”) al tramonto del famigerato “matriarcato”. Naturalmente si tratta di fantastoria, ma se prendiamo per buone le teorie delle gattare scienziologhe come Marija Gimbutas (che del resto il mainstream ci obbliga ad accettare proprio perché viviamo in un matriarcato) allora possiamo elaborare qualche interessante considerazione su cosa significhi il dominio delle donne dalla prospettiva delle donne.
Sostanzialmente, il matriarcato, a detta delle sue stesse “aede” sarebbe una collettività regolata dalla psicosi mestruale (che a un certo punto della adolescenza diventa per la femmina l’unica modalità di interazione col mondo, anche dopo la menopausa). Nessuno è probabilmente in grado di afferrare ciò che davvero fosse una società di tal fatta: anche il più fondamentalista dei redpillati giunge solo a concepire una civiltà-giardinetto dove gli uomini zappavano tutto il giorno e le donne divoravano i frutti della terra per poi diventare delle veneri preistoriche e farsi ritrarre dai poveri archeosimp intenti a rassicurarle sul fatto che non fossero grasse.

La realtà, almeno secondo l’interpretazione “femminista”, è invece molto più allucinante e spietata: Ama o Ama-Gan, la matrona della longhouse, imponeva come unico criterio di regolazione delle semine qualche strampalato calendario lunare-mestruale, che chiaramente non consentiva ai terreni di essere sfruttati adeguatamente. I riti di fertilità dunque non andrebbero letti come ringraziamenti alla “generosità” di Madre Terra, ma come espressione dell’angoscia provocata da un sistema capace di produrre solo una perenne sensazione di carestia.
Badate che non sto inventando nulla. Sì, è una teoria talmente assurda che un cervello maschile si rifiuta di afferrarla, ma è proprio così: le femministe si compiacciono che in una preistoria fantasy le donne siano riuscite a imporre sui maschietti quello che, per sintetizzare, definirei sclero da ciclo (esse ovviamente lo declinano in decine di espressioni) e sono altresì convinte che il patriarcato sia sorto solo dall’ingratitudine degli uomini.
A loro parere la specie sarebbe sopravvissuta anche alle prese con la bizzosa dittatura di Ama-Gan e anzi, addirittura saremmo stati tutti meglio, perché aborti a raffica e riproduzioni selettive avrebbero condotto l’umanità a un corso differente, improntato sul collettivismo, la decrescita (per non dire “carestia”), il libertinismo e l’ipergamia. Facile però porre sul banco degli imputati cose brutte brutte come il capitalismo o la tecnica; meno affermare -come fanno tra le righe le gimbuttane– che non sarebbero nemmeno esiste l’arte e la cultura, se non la storia stessa.
Esatto, in pratica tutta l’epopea della specie si ridurrebbe a un classico diverbio matrimoniale, ma noi umani in fondo siam fatti così. Non bisogna, del resto, immaginarsi chissà quale “invasione indoaria” da kolossal, con questi Gigachad un po’ esotici che avanzano di villaggio in villaggio decapitando matriarche e imponendo culti del cavallo e roghi votivi (sembra che stia descrivendo il film di Barbie, ma in realtà è quello che ci viene raccontato da secoli nelle maniere più elaborate possibili).
No, non voglio parlare ancora di Barbie, nonostante lo consideri il film americano più vero di tutti i tempi (e anche il più bello, ma de gustibus). Tuttavia, si capisce che la regista abbia consultato fior di storici se il passaggio al patriarcato è stato in effetti descritto come una sorta di inculturazione (perdonino gli specialisti se utilizzo il lemma in maniera non del tutto corretta, ma bisogna pur farsi intendere in qualche modo), dove è Ken a importare dall’altro mondo il culto del cavallo eccetera, piuttosto che un’orda di maschiacci dalla “realtà” a invadere Barbieland e imporre il proprio sistema.
Mi vengono ancora i brividi a ripensare alla scena in cui Ryan Gosling scopre il patriarcato, perché forse è proprio così che è andata: un betacucco per chissà quale motivo (magari anche solo un pericolo imminente, ché non bisogna ipotizzare un’identità individuale in uomini che non avevano nemmeno un nome personale), fugge dal gruppo di appartenenza, si perde e comincia a vagare nella direzione sbagliata, finché non si imbatte in un accampamento ario.
E lì magari viene accolto con una curiosità in grado di mitigare ogni percezione di minaccia: cos’è questo strano esemplare di *wiHrós che si aggira sperduto senza armi e, soprattutto, senza cavallo? Si tratta di una creatura della specie umana o di qualche strano animale assimilabile al bestiame?
Volendo immaginare, solo per celia, un dialogo tra il profugo betacucco e gli indo-arii, potremmo prendere spunto dall’ipotesi di un’espressione primordiale con cui le matriarche descrivessero le orde di uomini a esse sottoposte: per esempio, costruendola sull’enigmatica affinità fra il termine con cui gli indoeuropei indicavano la “bestia”, *pek’u-, che è di certo il più consistente antonimo di “uomo”, e il nomignolo collettivo con cui gli agricoltori della casa lunga venivano chiamati a raccolta (io lo associo a *peh₂ǵ-, e per non dilungarmi vi rinvio ancora a un dizionario etimologico).
Quindi magari il guerriero Gigachad ario avrà detto al malcapitato ometto: “Uè, peggu/pekku, ma che sfaccimm vai truvann?” e il povero betacucco azzerbinato avrà esclamato (parlando sempre al plurale, perché tramite ingegneria sociale e lavaggio del cervello gli era stato negato il diritto all’individualità): “Noi peggu! Noi peggu!”, per poi assumere un atteggiamento di puro terrore al pensiero che avesse smarrito la Dea Bianca (espressioni che cominciano con la “b” o la “g” e invocazioni ad Ama).
Gli indoari se lo saranno preso in carico, si saranno inventati un modo di comunicare, e Peggu, ribattezzato magari Urir (qui sto inventando alla grande) avrà assimilato la loro culture attraverso i rituali, l’arte, i monili, la musica, gli atteggiamenti. Urir soprattutto avrà assistito con immenso stupore alla capacità del *déms pótis, il “Maestro della Casa”, di gestire il potere con una saggezza e un equilibrio inediti, per nulla inficiati dalla crudeltà delle punizioni inflitte ai trasgressori, nel momento in cui non rispondevano a turbamenti individuali ma all’attuazione del perfetto ordine cosmico (*h₂értus) nell’ambito del “circolo” umano.
E dopo avergli fornito cibo, cavallo e armi, gli indoari avranno rispedito il loro Urir alla longhouse come una specie di avanguardia rivoluzionaria. In poco tempo, il missionario del patriarcato sarà riuscito a influenzare altri maschi, ribattezzandoli come Oron o Kern (*Kóryos, a mio parere l’etimo più plausibile per il mitico Cecrope, nato dalla terra -dall’orda- e divenuto guerriero), e sobillando una rivolta che magari in un dato istante (dopo centinaia di “focolari” accessi nelle steppe) sarebbe coincisa con un’effettiva invasione indoaria.
Mi immagino il dialogo tra regina-madre e betacucchi: «Stanno arrivando gli invasori chiamati da Urir e Oron, cosa dobbiamo fare?». E quel vecchio puttanone di Ama-Gul, avendo prelibato una nuova infornata di bei maschioni alfa da sottomettere, intenta a placare gli animi: «Stiamo calmi, consultiamo il sacro oroscopo». «Madre Regina Figlia del Cielo, ma dovremmo pur organizzarci in qualche modo!» «Perché devo fare tutto io? A voi non importa nulla dei miei problemi! Adesso non voglio parlare di indoari o altre cose, ho bisogno solo di una tazzona di miele fermentato e di contemplare lo spettacolo di qualche bella statuetta curvy agghindata come una vera queen!».
E i guerrieri infine giunsero a rispedire l’abominio matriarcale all’inferno ctonio per qualche millennio. Sì, lo so, sto delirando, ma perché la Gimputtas può farlo e noi betapekku del XXI secolo no? Capite che ora dovrei stilare altre venti pagine sull’ipotesi che novelli “indoari” impongano ancora un patriarcato anche per pura inerzia, come del resto a me pare sia effettivamente accaduto alle origini di qualsiasi cosa si possa definire “Storia”, “Europa”, “Occidente” o che ne so. Invece gno, ve la lascio lì così, ragionatevi voi simponi e cavalieri bianchi senza cavallo. Per il resto, se volete che scriva un libro o giri un film con l’AI su ‘sta roba dovete darci dentro con i pre-order.