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La spiaggia. Cesare Pavese e l’adolescente espressionista

Paolo Berti, il ragazzo alle soglie della maturità che segue come un’ombra il protagonista de La spiaggia (1942), è sicuramente uno dei personaggi più trascurati di Cesare Pavese.

È singolare, ad esempio, che Furio Jesi, nella sua nota dissezione della religio mortis pavesiana, non l’abbia portato a modello dell’“adolescente espressionista” simboleggiante il proposito di “ridurre a chiarezza il mito” (un programma condiviso e dallo scrittore piemontese e dalle avanguardie tedesche del primo Novecento). «Da parte degli espressionisti», scrive Jesi in Letteratura e mito (Einaudi, Torino, 2002, p. 152), «c’è stato un tentativo di chiarire il mito, di prendere coscienza dell’immagine mitica possedendola nel tempo presente», attraverso la sostituzione del «fanciullo partecipe delle realtà primordiali» con «il “Figlio” in rivolta contro il padre del dramma di Hasenclever, il ragazzo uccisore del padre, moderno Edipo, di Vatermord di Bronnen, gli adolescenti turbati e destinati a non giungere alla maturità di Frühlings Erwachen di Wedekind».

Anche il Berti potrebbe appartenere a questa razza di “adolescenti”, una presenza che consente a Pavese di osservare la formazione del mito in vitro, con l’illusione, nel contrasto, di aver raggiunto la tanto agognata maturità.

Berti in fondo non è altro che Pavese ai limiti dell’adolescenza, un attimo prima che l’armonia con le cose si rompa e che egli si ritrovi estraneo a quel mondo in cui aveva “vissuto”: come annota nel diario (Il mestiere di vivere, 26 maggio 1938), «la ragione perché gli unici filoni ricchi di materia che hai trovato sono gli anni dai sei ai quindici, da cui ti giungono storie e poesie mature e saporite – è questa: in quegli anni vivevi nel mondo, vitellescamente e ottusamente ma nel mondo. Il tuo io interessava sì tutti i tuoi contatti pratici col mondo, ma lasciava intatta tutta la corrente di simpatia tre te le cose».

È quando l’uomo perde tale “comunione” con la realtà, che sorge la necessità di scrivere: «Nell’infanzia, […] piccoli bruti inconsapevoli, il reale ci accoglieva come accoglie semi e pietre. Nessun pericolo che allora lo ammirassimo e volessimo tuffarci nel suo gorgo. Eravamo il gorgo stesso. Ma […] la tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo preinfantile delle cose, è il peccato» (così nel saggio breve “La vigna” che segue i racconti di Feria d’agosto; per un’analisi più approfondita sul “mito dell’infanzia”, cfr. Il mestiere di morire. Ipotesi su Pavese).

La comunione impossibile con la vita si impone anche nei rapporti col genere femminile; secondo lo scrittore «per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi, non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore. Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona. Erano in gamba gli inventori dell’amore di Dio: altro che insieme si possieda e si goda, non esiste» (MdV, 16 novembre 1937).

Nel momento in cui il fanciullo prende consapevolezza di “essere il gorgo”, svanisce la possibilità di godere e abbandonarsi al contempo: ma non si tratta di una perdita associata allo sviluppo naturale della persona, poiché esistono ancora individui, gli “olimpici”, che per tutta la vita riescono a dirsi “padroni della terra”.

Di conseguenza Berti, pur non essendo più un fanciullo, è ancora “vergine”, ovviamente non in senso fisico (ha una relazione con un’attempata prostituta, la “donnetta”, “l’amante per ridere”), ma spirituale: egli rappresenta la salute e l’innocenza dell’uomo che ignora la Donna.

Con manifesta inquietudine Pavese lo osserva avvicinarsi pericolosamente a Clelia, una delle “sue” donne che, pur non avendo ancora acquisito il volto tremendo di Astarte-Afrodite-Melita, cova in sé potenzialità mitiche solo momentaneamente imbrigliate da un “lieto fine” (si scopre incinta del marito Doro, il migliore amico del protagonista).

Pavese ascolta condiscendente i turbamenti di questo «giovanotto arso di sole», dal «corpo nero e vigoroso», che può ancora permettersi di ignorare la Dea: «[Berti] delle donne sentiva ribrezzo e gli faceva ribrezzo che tutti vivessero solo per quello. Le donne erano stupide e smorfiose: l’infatuazione degli uomini le rendeva necessaria; bastava mettersi d’accordo e non cercarle più, per togliere a tutte la superbia».

Sono gli stessi discorsi dei giovani di Feria d’agosto, quelli che alle donne «preferiscono le ciliegie». Sfortunatamente il gioco non può durare a lungo e Pavese si adombra nell’assistere ai mutamenti del ragazzo: la sua sfacciataggine non è già più segno di “salute”, ma «soltanto timidezza che per autodifesa diventata aggressiva», un modo per negare un destino “scritto nelle ossa”, che non avrebbe più potuto eludere una volta terminato il tempo in cui «poteva ancora illudersi sulla sua indole vera».

Berti comincia a sentirsi ridicolo di fronte agli “olimpici” (gli amici del protagonista); Pavese tenta di minimizzare il dramma («I dispiaceri della tua età sono molto leggeri»), ma il ragazzo ormai non è più tale: «Di tanto in tanto gli veniva voglia di lavorare, una smania, un desiderio di fare qualcosa, non tanto studiare quanto avere un posto di responsabilità, di fatica, ma darci dentro giorno e notte per diventare un uomo come noialtri, come me». Berti vorrebbe già avere trent’anni, e non accetta gli ammonimenti del suo primo maestro: «Ma tutti gli anni sono stupidi. È una volta passati che diventano interessanti».

Il romanzo si conclude come è iniziato: dalla prima sortita del protagonista e Doro verso i “paesi tuoi”, con lo scetticismo dell’amico («Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie»), il quale ha risolto la contraddizione tra abbandono e godimento attraverso il matrimonio con Clelia (che lo reintroduce nella vita), fino all’amara constatazione finale: «Nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici». Dunque verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo, e non potrà far altro che constatare la sua “futile tragedia”: «So che la vita è stupenda ma che io ne son tagliato fuori, per merito tutto mio».

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