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La stagione del terrore

Stańczyk
(Jan Matejko)

Lasciando da parte anche solo per un attimo tutte le paranoie e i complottismi del caso, mi piacerebbe capire i motivi per cui negli ultimi due anni gli attentati terroristici in Europa sono decuplicati: non so se sia ancora possibile proporre un’analisi del genere senza tirare in ballo primule rosse e false bandiere, ma vorrei nel mio piccolo provarci.

Una prima considerazione elementare è che tra le bombe di Madrid (11 marzo 2004) e Londra (7 luglio 2005) e l’attentato di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015) intercorrono dieci anni. Un lasso di tempo non indifferente, che se non fosse per la comune natura di atti terroristici renderebbe tali episodi estranei gli uni agli altri. È quindi dall’assalto alla sede del giornale satirico che dobbiamo partire con la conta: nel 2015, dopo Charlie, abbiamo avuto in Francia decapitazioni e assalti ai treni, fino all’apoteosi del 13 novembre, mentre nel 2016 ci sono stati gli attentati di Bruxelles (22 marzo), il camion lanciato sulla folla a Nizza (14 luglio), la sparatoria di Monaco (22 luglio), lo sgozzamento di un sacerdote in una parrocchia normanna (26 luglio) e un altro assalto con un camion a Berlino (19 dicembre).

Il parallelo, che a me pare evidente ma che nessuno ha preso in considerazione (se non appunto esclusivamente da una prospettiva “complottistica”), è quello con gli anni di piombo. Il primo attentato rivendicato dalle Brigate Rosse fu infatti l’assalto a una sede padovana dell’MSI, nel quale vennero uccisi due militanti. Dopodiché il terrorismo rosso dilagò in Italia allo stesso modo in cui a livello europeo sta ora dilagando quello islamico: possiamo chiamare in causa la strategia della tensione, i servizi segreti, l’immigrazione, la violenza dilagante, eccetera; ma tra le cause che dovremmo collocare al primo posto resta sempre la sottovalutazione del fenomeno.

Così come all’epoca un assalto a una sede di partito sembrò un qualcosa di trascurabile (“Si ammazzino pure fra di loro”), se non giustificabile (“In fondo erano fascisti”), allo stesso modo quel primo assalto alla redazione di Charlie Hebdo non venne considerato un segnale di allerta, ma un semplice episodio di cronaca, nei confronti del quale ci si è potuti permettere il lusso dell’equidistanza.

È proprio questo l’humus da cui è sorta la nuova stagione del terrore. Il resto non sono che tentativi de se faire une raison: quando gli apologeti della “giustizia islamico-proletaria” hanno capito che i prossimi sarebbero stati loro, era ormai troppo tardi per correre ai ripari. Vi ricordate, vero, quel che venne scritto una volta passato di moda il “Je suis Charlie”? In fondo non è passato molto tempo, si può ancora risalire alle panzane sulle “disdicevoli provocazioni”, il “razzismo verso la banlieue”, gli “opposti estremismi”, la “trappola dell’odio”, eccetera.

Come esempio illustre, basti quello di Régis Debray, del quale in anteprima “La Stampa” pubblicò, il giorno precedente gli attentati parigini del 13 novembre (sono concessi gesti scaramantici), un intervento/sermone per la rivista “Vita e Pensiero” (Elogio della tolleranza, fino a un certo punto). Si tratta di un eccellente compendio dei luoghi comuni del post-Charlie, tra i quali ricordiamo le proposte di stipulare un gentleman’s agreements basato esplicitamente sull’ipocrisia e promuovere una “pedagogia dell’umorismo” basata esplicitamente sulla censura.

Mi pare evidente che il paternalismo mascherato da “rispetto dell’alterità”, così come l’islamicamente corretto, non hanno avuto alcuna efficacia nella prevenzione del terrorismo; questo tipo di approccio impedisce soprattutto di individuare la benché minima indicazione sul da farsi (per esempio, chiudere Charlie Hebdo).

Lo stesso discorso vale anche per le soluzioni più “cattive”, dalla deportazione di tutti gli stranieri di fede islamica a un blando giuseppinismo sul modello della cosiddetta “Legge Jarovaja” approvata recentemente in Russia (anche se non è escluso che provvedimenti più energici ed incisivi dei gessetti colorati e delle candele profumate potrebbero perlomeno avere un effetto dissuasivo).

La verità è che, ora come ora, l’unica cosa da fare è attendere che passi ’a nuttata. Ripensandoci, non è forse questo l’atteggiamento che assunsero i vari governi italiani nei confronti del terrorismo rosso? Anche se, lo ribadiamo, è possibile che la coreografia reazionaria abbia aiutato ad accelerare il decorso (è un argomento complesso da affrontare, perché l’ispirazione da cui nascono gli attentati odierni non è soltanto ideologica, ma principalmente etnico-religiosa, dunque diventa indispensabile agire perlomeno su uno dei due elementi –come, per esempio, la cittadinanza–).

Dobbiamo quindi attendere che il terrorismo passi di moda; nel frattempo sarebbe apprezzabile smetterla di considerarlo “accettabile” quando diretto contro le banche o i politici o i fumettisti o i fascisti.

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