Come è noto, in alcuni Paesi islamici le leggi attribuiscono ancora alla testimonianza di una donna in tribunale la metà del valore di quella di un uomo. Prima di analizzare nello specifico cosa preveda la sharia a seconda delle nazioni in cui è applicata, pare corretto ricordare che in Occidente è valso per lungo tempo un principio consolidato nella prassi giuridica — e già presente nel diritto romano — secondo cui mulier ad testimonium non admittitur, ovvero “la donna non è ammessa a testimoniare”.
Le origini di questo “pregiudizio” le si possono ritrovare in qualsiasi cultura, anche se rispetto all’ebraismo rabbinico, che escludeva le donne dalla testimonianza legale basandosi su interpretazioni del diritto biblico, il cristianesimo non fornì alcuna base “teologica” al precetto (semmai i Vangeli mettono in evidenza episodi in cui le donne sono testimoni privilegiate di eventi centrali, a partire dalla Resurrezione), limitandosi semmai ad accettarlo come un provvedimento talmente “pacifico” che non avrebbe avuto alcun senso mettere in discussione.
Del resto, in molti sistemi giuridici non influenzati dalle religioni abramitiche — come in alcune culture dell’Africa orientale o dell’Asia meridionale — sussistevano (e in certi casi sussistono tuttora, come in certe tribù dell’Uganda e del Kenya) norme analoghe, che limitano il valore probatorio della testimonianza femminile. Ciò mostra come tale esclusione non sia un’esclusiva dell’eredità giudaico-cristiana o islamica, ma risponda piuttosto a modelli sociali trasversalmente diffusi.
Per quanto riguarda -finalmente- l’islam, il trattamento differenziato si basa su un versetto del Coranoriguardante la questione dei contratti (2,282), che prescrive di chiamare a testimonianza “due dei vostri uomini o in mancanza di due uomini, un uomo e due donne”. Alcuni hadith citano motivazioni tradizionali (legate alla percezione del genere femminile all’epoca), mentre studiosi islamici moderni chiariscono che il versetto si applicherebbe specificamente ai contratti finanziari, e non alla testimonianza in generale.
Il Dar al-Ifta al-Misriyyah (l’autorità ufficiale egiziana per le fatwe), per esempio, contestualizza il versetto affermando che esso non intende denigrare le donne ma solo agevolare il carico di prova in situazioni specifiche, tenendo presente che nell’Arabia del VII secolo le donne avevano minore esperienza rispetto agli uomini nel commercio. Anche nell’islam è in fondo accettata la testimonianza delle donne, per esempio nel riferire motti del Profeta.
Se l’Egitto in base a questa interpretazione da parte dei dotti coranici ha attuato nel 1968 una riforma costituzionale (Legge n. 25, Qanun al-Ithbat) equiparando esplicitamente la testimonianza di una donna a quella di un uomo, altri Paesi islamici mantengono ancora il percetto.
Giusto per ricordare, il Pakistan nel 1984 ha adottato una legge sulla testimonianza (Qanun-e-Shahadat) la quale dispone che in certi procedimenti civili la testimonianza di una donna abbia valore pari a metà di quella di un uomo. Il provvedimento serviva a bilanciare modernizzazione e islamizzazione (nonché integrare il sistema penale perennemente diviso fra tradizione coranica e anglosassone), e nonostante nel 2006 l’allora presidente Pervez Musharraf vi abbia posto il veto, il Qanun venne reintegrato nel 2007 (con una mitigazione dell’applicazione della sharia per i reati sessuali).
In Iran la riforma del codice penale del 2013 mantiene la norma che nei processi per reati gravi (come adulterio od omicidio) la testimonianza femminile possa considerarsi valida solo se confermata da due uomini (ad esempio, l’art.76 stabilisce che “la testimonianza delle donne, da sola o con un solo uomo, non prova l’adulterio ma costituisce falsa accusa”).
Per tornare tuttavia dalle “nostre parti”, andrebbe evocato il fenomeno del #MeToo, la denuncia collettiva da parte delle lavoratrici del mondo dello spettacolo di –presunti- abusi sessuali subiti da “pezzi grossi” dello star system, che si è smorzato nel momento in cui divenne difficile “credere a tutte le donne”: non fu un caso che, tra le altre cose, lo slogan adottato da chi protestava affinché i processi per molestie si trasformassero in “giustizia spettacolo” (letteralmente), fosse proprio Believe Women.
Il “Credere alle donne” come imperativo categorico fece alzare qualche sopracciglio persino a giornalisti di orientamento liberal, considerando i vari scandali legati al fenomeno delle “false accuse” che hanno distrutto numerose vite di uomini in realtà innocenti (in Italia il problema non è sentito come negli Stati Uniti, ma un ottimo approccio a esso lo si può trovare nell’attività online di Davide Stasi –tranquill*, non è parente di Alberto– sintetizzata nel volume Violenza sulle donne: le anti-statistiche).
Non è uno sviluppo improbabile che, una volta passata l’interminabile -almeno all’apparenza- stagione del femminismo istituzionale, si possa partire da qui per sviluppare una diversificazione del valore delle testimonianze in base al genere anche nei sistemi penali dei Paesi occidentali.
Del resto, esistono già studi che analizzano le differenze tra uomo e donna in ambito giudiziario. Per esempio, Areh (2011) o Russel et. al. (2023) concludono che le donne andrebbero considerate testimoni oculari più affidabili degli uomini, in quanto tendono a ricordare meglio i dettagli relativi alle persone, in particolare nelle descrizioni delle vittime (non so quanto sia utile questa cosa ai fini delle indagini, ma vabbè), mentre gli uomini riescono a tenere a mente elementi riguardanti l’evento in sé e l’ambiente circostante (insomma, donne interessa al “sociale” e uomini allo “spazio” e al “tempo”).
Ci sono poi contributi anche più controversi, come Nagle et. al. (2014) che seppur registrando una “presunzione di credibilità” nei confronti dei testimoni maschili rispetto a quelli femminili, al contempo notano che una donna sorridente riscuote maggior fiducia rispetto non solo alle donne che non sorridono, ma soprattutto agli uomini stessi (sorridenti o meno).
Una tesi dell’Università del North Dakota (2022) ha invece evidenziato che in specifici contesti, legati nell’immaginario comune alla femminilità, le donne vengono percepite come più credibili degli uomini: si parla, per l’appunto, di casi di violenza domestica o sessuale, cause civili legate a figli, istruzione o cura familiare, testimonianze su relazioni personali e dinamiche familiari, e complessivamente casi in cui sono coinvolti dei minori.
Ovviamente, il campo minato degli studies può portare un giorno a ribaltare questa prospettiva “pregiudiziale anti-pregiudiziale” (nel senso che molte ricerche vengono imbastite per smentire quel tale o tal altro presunto bias maschilista diffuso a livello collettivo). Tuttavia, come si può apprezzare, ci sono ancora dei percorsi aperti per una (contro)riforma, senza per questo dover diventare dei fondamentalisti islamici.
Non sorvegliata misoginia e rancore: che le donne siano escluse dalle testimonianze giudiziarie, ancorché possa sembrare una costante antropologica, è soltanto l’effetto dell’esclusione dalla vita civile (e patri-moniale) della comunità delle donne, e non di una qualche verità iscritta nei geni dell’altro sesso. Il “pregiudizio” (non in un senso necessariamente dispregiativo) dei sistemi giuridici preindustriali è che una testimonianza sia degna di fede soltanto se il testimone non dispone di”sostanze” economiche adeguate tale da renderlo corruttibile: è questa la ragione per cui nella Grecia classica la testimonianza degli schiavi (maschi!) fosse valida solo sotto tortura.
Soprattutto le società pre industriali non sono specula adeguata per guardare alle derive americane del “metoo”; il metro per giudicare il quale è soltanto il tralignamento individualista di quella società, in particolare l’assurdo sistema delle “stars” dove la primogenitura la si lascia per molto meno che per un piatto di lenticchie.
Apprezzo il tuo tentativo di coniugare marxismo e omosessualità (come se ce ne fosse bisogno), ma la prospettiva che un giorno sia fatto uno studio sulla predisposizione a mentire da parte delle donne ti sembra così assurda? Non dirmi che non ti è mai capitato di vedere una donna mentire solo per il gusto di farlo. E ovviamente lo fanno anche i maschi, ma in esso ci appare appunto come un atteggiamento “innaturale”. Io non ho mai ricevuto un resoconto attendibile da una donna su: lite con le vicine o le colleghe o le amiche; comunicazione da parte di terze persone; dialoghi con le autorità in senso generico (dal medico di base ai vigili), eccetera eccetera
Non è solo il gusto di mentire, molte donne non si ricordano davvero quanto fatto o detto (e non è l’Alzheimer). Anche mia madre e mia nonna sono così, pur essendo brave persone
Esatto, la questione è che non si tratta di “cattiva fede”, è un habitus mentale esercitato sempre in buonissima fede…
Il #MeToo ha portato l’effetto contrario del preventivato.
E se a dirlo sono i “super liberali” del foglio
https://www.ilfoglio.it/societa/2019/09/17/news/il-metoo-ha-peggiorato-la-situazione-delle-donne-sul-posto-di-lavoro-274619/
Oltre al fatto che ci sono caduti dentro scrittori come Neil Gaiman e un altro del fumetto americano che si definivano uomini-femministi che non ricordo mai il nome, dato che questi non li leggo ne li seguo.