Alla fine di giugno è stato sospeso l’invio di sei motovedette che il governo italiano avrebbe dovuto donare a quello della Tunisia come previsto dall’accordo stretto tra Giorgia Meloni e Kais Saied nell’aprile scorso. Ad ostacolare la -blanda- iniziativa per contrastare l’immigrazione clandestina il Consiglio di Stato, che ha recepito positivamente il ricorso di alcune ONG (internazionali, italiane e persino tunisine) allarmate dal fatto che il Paese nordafricano, dalla loro prospettiva, non potesse fregiarsi del fatidico status di “porto sicuro”.
Dopo l’inutile -ma se non altro breve- ostruzione, il Consiglio ha ribaltato il suo decreto e ha dato il via libera con un’ordinanza che ha confermato il giudizio già espresso dal Tar del Lazio (dove aveva transitato la tenzone politico-giuridica): «La Tunisia è ricompresa tra i Paesi sicuri. L’Intesa in questione si inserisce nel memorandum siglato dall’Ue nel 2023».
Per quanto consideri Meloni e i suoi accoliti una masnada di indolenti in grado di gestire il Paese solo piegandosi alle logiche dei propri avversari (sempre più “presunti” obiettivamente), mi rendo conto di come gli venga comunque concesso di costruirsi una credibilità sul vittimismo nel momento in cui gli apparati di Stato continuano a equiparare le opinioni dei manager delle ONG a statuti internazionali, convenzioni ONU e direttive europee. Senza cedere al complottismo, è evidente una volontà superiore non solo ai governi ma anche alle strutture sovranazionali volta a impedire qualsiasi controllo sui flussi migratori diretti verso l’Europa.
A un livello puramente formale, non esiste infatti alcun appiglio per cui le geremiadi delle ONG dovrebbero essere accettate da un qualsiasi organo istituzionale. Il caso tunisino è da manuale perché lo psicodramma risale a ben prima della “demonizzazione” di Saied, che per i media occidentali ora è diventato letteralmente un “suprematista bianco”, mentre egli non è obiettivamente né peggiore né migliore di tutti gli altri “despoti” prodotti dall’inevitabile fallimento delle “primavere arabe”.
In particolare, la questione del “porto sicuro” è finita al centro delle cronaca nel momento in cui la nota Carola Rackete, con un calcolo puramente politico, decise di portare il suo “carico umanitario” a Lampedusa per sabotare le iniziative dell’allora Ministro degli Interni (il Salvini del 2019, ormai completamente scomparso): tra le bufale sparare dalla “capitana” (adesso eurodeputata), come il fatto che il governo olandese (del quale batteva bandiera la nave della ONG) avesse respinto la richiesta di sbarco, c’era quello che i migranti non potessero essere portati né in Libia né a Malta e, per l’appunto, nemmeno in Tunisia perché a suo dire questi Paesi non avrebbero garantito alcun “porto sicuro” in base a informazioni tratte dal sito di Amnesty International (sic).
Tra le altre cose, è stato sostenuto che la Rackete non avrebbe potuto dirigersi a Tunisi “perché la Tunisia non ha firmato la Convenzione di Ginevra“, cosa che invece il Paese ha fatto nel 1957, così come ha aderito nel 1968 al Protocollo sui rifugiati e nel 1989 alla Convezione sui rifugiati dell’Unione Africana, oltre che alla Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita umana in mare e la Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (qui e qui tutti i dettagli sulla questione della “sicurezza”). D’altro canto, è la stessa Agenzia ONU per i Rifugiati, l’UNHCR, a garantire ufficialmente lo status di “Paese sicuro” della Tunisia.
Nello Stato nordafricano opera inoltre l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), agenzia delle Nazioni Unite che con i fondi dell’Unione Europea mette in atto proprio dalla Tunisia dei programmi di “ritorno volontario assistito” nell’ambito dell’iniziativa Migrant Protection and Reintegration in North Africa (Mprr-Na), che si prende carico di chi preferisce tornare alla terra d’origine offrendo importanti contributi (nella prospettiva del costo della vita locale) per aprire attività e garantire un sostentamento alle proprie famiglie.
Come si vede, le uniche motivazioni per il boicottaggio della Tunisia sono di natura politica, tanto è vero che le ONG si sono sempre attaccate a pretesti evenemenziali, come il fatto che la nazione non sia in grado di garantire i “diritti umani dei migranti”, nonostante da una prospettiva formale abbia letteralmente “tutte le carte in regola”. Negli ultimi tempi poi si fa leva su notizie di cronaca riguardo a una presunta “ondata di razzismo” tra le masse tunisine e l’altrettanto presunta presenza di squadracce adibite alla “caccia al nero” nelle principali città, affermazioni per ora attestate solo dai titoloni della stampa occidentale.
Ad ogni modo, si evince dalle dichiarazioni dei vari portavoce delle ONG, che -tanto per citare- all’ultimo Festival delle Migrazioni italiano hanno riconfermato questa sorta di “disconoscimento” delle organizzazioni internazionali (“OIM e UNHCR sono sempre più lontane dalle necessità dei migranti”), il proposito di presentarsi come unica autorità legittimata a decidere dove debbano recarsi i migranti.
Come del resto aveva già osservato in tempi non sospetti (e proprio intervenendo sullo status della Tunisia) il portavoce dell’UNHCR per Asia e Europa, Charlie Yaxley, le ONG non possono svolgere “attivita di lobby” indirizzando le persone verso un Paese piuttosto che un altro. Effettivamente tale parrebbe il fulcro della questione: ci sono organizzazioni il cui intento principale è garantire un flusso costante e non regolato di immigrati africani e asiatici verso l’Europa. Lo scopo politico, come quello economico, passa in secondo piano rispetto a un’ispirazione piuttosto opaca ed enigmatica che obiettivamente offre il destro a qualsiasi interpretazione ispirata al complottismo “kalergista”.
Tornando ab ovo, il governo Meloni a Tunisi ha agito col pieno sostegno dell’Unione Europea, limitandosi a inserire gli accordi sotto l’egida del cosiddetto “Piano Mattei”, che per ora assomiglia a una classica iniziativa assistenziale a tinte pseudo-sovraniste: non per nulla Saied per la stampa occidentale, come si diceva, è diventato membro onorario dell’Internazionale Nera nel momento in cui ha voluto rimarcare la questione, tutta politica (ma trasformata dai media in economica: “Fa sceneggiate perché vuole più fondi”) della sostituzione etnica, la quale da quel che sembra preme anche all’opinione pubblica tunisina più moderata (il che è il colmo dalla prospettiva del terzomondista medio).
Detto fuori dai denti, assumere un Enrico Mattei come simbolo identitario di un presunto “nuovo corso” che dovrebbe favorire lo sviluppo delle nazioni africane in un’ottica sovranista, ma poi ripetere il tipico schemino neocoloniale, non so quanto possa pagare politicamente (e pure economicamente, visto il tema). D’altro canto, l’impossibilità di raggiungere una qualche forma di ragionevolezza nella gestione dell’immigrazione, porta l’Europa (o l’Occidente, per esprimersi a grandi linee) a una perpetua situazione di instabilità, in primis diplomatica, che è forse anch’esso uno degli scopi per cui agiscono gli umani “più umani degli altri”.