La vignetta di Charlie Hebdo sulle ragazze rapite in Nigeria

Mercoledì 22 ottobre 2014 Charlie Hebdo pubblicò una copertina che suscitò il solito scandalo: essa ritraeva alcune delle oltre duecento ragazze nigeriane sequestrate da Boko Haram nell’aprile di quell’anno lamentarsi del rischio di poter perdere gli assegni familiari una volta messe incinta dai loro rapitori (Les esclaves sexuelles de Boko Haram en colère: Touchez pas à nos allocs!, “Le schiave sessuali di Boko Haram in collera: Non toccate le nostre indennità!”).

Dopo l’attentato l’immagine, una volta avulsa dal contesto, è passata alla storia come una delle testimonianze del razzismo e sessismo del settimanale: addirittura Rénald Luzier, in arte Luz (uno dei redattori scampati all’attentato) intervistato su di essa si dimentica il motivo per cui era stata fatta…

Voglio fare un po’ l’avvocato del diavolo, lasciando ovviamente da parte la langue de bois del fumettista (è comunque imbarazzante difendere certa gente, ma visto che siam qui): la vignetta -vado a memoria, potrei sbagliarmi- si rifaceva al clamore suscitato da una sentenza della Cour de cassation quasi contemporanea al rapimento di massa, che stabiliva che i figli degli immigrati turchi e algerini potevano ottenere gli assegni familiari senza esser nati in Francia, semplicemente ricongiungendosi alle loro famiglie residenti nel Paese (anche in modo illegale).

In pratica il disegno voleva ironizzare sul fatto che per la destra il sequestro di quelle ragazze fosse meno importante della battaglia sugli “abusi” del welfare da parte degli immigrati: nell’editoriale si ridicolizzava anche la finta indignazione per le rapite, che aveva un senso solo in un’ottica islamofobica, ipotizzando che esse avrebbero rappresentato un problema ben più grande se, una volta messe incinta dai loro sequestratori, si fossero trasferite in Francia per ottenere le famigerate allocs.

Col senno di poi, ci sarebbe altro materiale riguardo alla vicenda su cui “sghignazzare” macabramente: per esempio, che molte delle rapite siano state stuprate e ridotte alla fame dagli stessi “liberatori” (“costrette a essere disponibili sessualmente con i soldati in cambio di cibo e acqua”) e che altre abbiano deciso di tornare dai propri aguzzini.

Alla fine del 2018 il New Yorker racconta la storia di Aisha: scelta come terza moglie da uno dei capi dell’organizzazione terroristica e diventata dunque una amira, ha il diritto ad avere dei servitori (perlopiù altre ragazze rapite) e al rispetto da parte di tutti gli altri uomini del clan, che le parlano “a testa china”.

Nel gennaio 2019 il Guardian riporta la testimonianza di altre due giovani liberate e tornate quasi subito al campo di Boko Haram:

“Zahra e Amina sostengono che quando erano con i militanti, la vita era dura e incerta, ma almeno avevano di che mangiare. Come mogli volontarie di combattenti, erano protette dagli stupri. Frequentavano le lezioni di Corano, la prima scolarizzazione che abbiano mai ricevuto, e anche i loro figli potevano finalmente studiare. C’erano tribunali in cui le donne potevano denunciare mariti violenti. Al contrario, nelle loro vite fuori dal campo, soffrivano la fame, avevano poche possibilità di lavorare e la povertà le ha fatte diventare vittima dei ricatti sessuali dei soldati che le avevano in custodia”.

Nonostante questi episodi si siano verificati in contesti di estremo grado e povertà, la cronaca ci insegna che possono ripetersi in modo trasversale, indipendentemente dalla classe di provenienza, dal titolo di studio e dalle condizioni di vita.

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