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L’aborto come tragedia maschile

Oltre dieci anni fa è uscito un bel libro (l’unico in Italia) che affronta la questione dell’aborto da una prospettiva “maschile”, intitolato molto semplicemente Lui e l’aborto (Piemme, 2013). È una lettura consigliata anche se questi anni tremendi hanno obiettivamene depositato una patina sulla pietà così profondamente cristiana nei confronti del sesso femminile espressa nel volume. Perché la verità è che le donne non provano alcun “patema d’animo” nell’abortire.

È risibile ormai la tiritera sull’immane sofferenza che una femmina proverebbe nello spappolare la vita nascente nel suo corpo. E, al di là di tutte le chiacchiere, sono le statistiche internazionali a parlar chiaro: il 95% delle donne abortisce per ragioni che non hanno nulla a che fare con la salute o con i traumi (aborti per incesto e stupro, giusto per dire, sono nell’ordine dello 0,4%, in Europa come negli Stati Uniti).

Le donne dormono sonni tranquilli, non preoccupatevi, a meno che non sia intervenuta qualche causa esogena (una serata sushi e coca di troppo) a farle “rinsavire” con qualche visione di un ipotetico “inferno” in cui mancano gli smalti da abbinare al proprio segno zodiacale o all’umore quotidiano. Per il resto, se ne infischiano.

Al contrario, gli uomini non ci dormono la notte, ma non possono confessarlo nemmeno a uno psicoterapeuta per non sembrare deboli, “froci”, mammolette (giusto per usare il lessico delle tollerantissime vaginomunite). I maschi italiani poi hanno incontro un intero apparato statale che li tratta come dei “distributori automatici di sperma” (perlomeno gli americani possono godere di qualche giudice della Corte Suprema!).

Che vi credete: una donna abortisce anche solo per fare un dispetto a chi l’ha messa incinta. E comincia forse a pentirsene sul serio quando a cinquant’anni le muore il gatto ed è ancora incerta su come rimpiazzarlo (per loro è più facile cambiare uomo che “pelosetto”). Il padre mancato invece vive un dramma profondamente intimo e personale, e proprio perché non può confessarlo fa lo scemo, il finto duro, si rallegra di poter continuare ad atteggiarsi da eterno ragazzo.

Io però so bene quanto un uomo, o perlomeno un uomo che si possa definire tale, soffra per non esser riuscito a impedire l’uccisione della sua prole. Anche quando è vecchio e rincoglionito, sentendo la data di nascita di qualche astro nascente della sua squadretta del cuore, pensa che in quell’anno Cumciettina è corsa subito a far maciullare il feto perché le si prospettava un carrierone da commessa o estetista.

Le femmine -e non solo le “femministe”, siamo onesti- negano qualsiasi validità scientifica alla cosiddetta sindrome post-abortiva, o comunque la collegano a un ipotetico “patriarcato” che vorrebbe farle sentire in colpa per aver espresso la propria femminilità al 100%; oppure ancora, se eventualmente cadesse loro una lacrimuccia, sarebbe giusto per intortare qualche bel maschione adocchiato in giro (il quale in ogni caso viene da loro scelto inconsciamente proprio in base alle sue capacità riproduttive…).

Pensate a una donna che vi uccide il figlio perché “non guadagnate abbastanza”, perché avete viaggiato troppo poco o perché la sera che è stata -presumibilmente- ingravidata non è venuta. È con deliri di questo tipo che hanno a che fare gli uomini là fuori, altro che il  “maschio alfa” che porta la “preda” con l’occhio nero al primo consultorio. Dobbiamo smetterla di fare gli ipocriti, anche correndo il rischio di sembrare troppo cinici e poco “cristiani”. Basta farsi prendere in giro da questi moloch ambulanti.

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