Le conseguenze (catastrofiche) della ventilazione meccanica nella terapia anti-covid

COVID19: Are ventilators killing people?
(Off Guardian, 6 maggio 2020)

Intubazione e ventilazione polmonare sono state presentate come l’unico modo per curare i malati di coronavirus nei primi giorni dell’epidemia, ma ora alcuni medici stanno mettendo in dubbio tale pratica.

Da quando il coronavirus è giunto drammaticamente dalla Cina all’Italia, buona parte del dibattito è stato incentrato sulla capacità dei sistemi sanitari di far fronte all’ondata di pazienti.

Uno tsunami di sofferenza umana che, settimane dopo, in verità non si è ancora manifestato. Il National Health Service (NHS), il sistema sanitario britannico, ha costruito in tutta fretta un nuovo ospedale di emergenza da 4000 posti letto, il Nightingale Center, che è stato a malapena utilizzato…. e ora è chiuso! Anche negli Stati Uniti gli ospedali da campo sono stati tirati su e smantellati nel giro di pochi giorni.

Qualcuno ricorderà che agli esordi della pandemia quasi tutti i problemi sembravano rappresentati dai ventilatori polmonari: ne abbiamo abbastanza? Dobbiamo produrne di più? Oppure stamparli in 3D? O costringere le fabbriche di automobili e armi a produrli?

Questa narrativa mediatica non ha mai corrisposto alla verità effettiva della situazione. E alla fine qualche medico ha avuto il coraggio di ammettere che la ventilazione meccanica non è solo inappropriata per le persone con infezioni respiratorie, ma che è stata utilizzata in modo eccessivo sui malati di covid, fino a far più male che bene.

Il dottor Matt Strauss, ex direttore del Guelph General Hospital (Canada), sullo “Spectator” ha sottolineato che i ventilatori non sono di per sé una terapia e non andrebbero usati su pazienti con malattie respiratorie (Ventilators aren’t a panacea for a pandemic like coronavirus, 4 aprile 2020):

“I ventilatori non curano alcuna malattia. Possono riempire i polmoni di aria quando il paziente non riesce a farlo da solo. L’opinione pubblica li associa alle malattie polmonari, ma in realtà questa non è affatto la loro applicazione più comune o appropriata”.

E aggiunge che i pazienti potrebbero non avere alcun beneficio dalla ventilazione artificiale:

“Non c’è mai stato uno studio che attesti che sia meglio attaccare una persona sul ventilatore piuttosto che lasciarla combattere da sola la malattia. Pertanto, in senso stretto, non sappiamo se coloro che sono sopravvissuti con la ventilazione artificiale sarebbero sopravvissuti comunque, o se alcuni siano morti proprio perché attacchi a un ventilatore“.

Altri articoli hanno affrontato l’argomento; per esempio With ventilators running out, doctors say the machines are overused for Covid-19 (“Con i ventilatori in esaurimento, i medici affermano che le macchine sono state usate in modo eccessivo per Covid-19”, Stat News, 8 aprile 2020) e Sterberate bei Beatmungspatienten gibt Rätsel auf (“Sconcertante tasso di mortalità tra i pazienti attaccati alla respirazione artificiale”, Die Welt, 13 aprile 2020).

Il dottor Eddy Fan del Toronto General Hospital ha dichiarato all’Associated Press (Some doctors moving away from ventilators for virus patients, 8 aprile 2020):

“Una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni è che la ventilazione medica può peggiorare le lesioni polmonari, quindi dobbiamo stare attenti a come la usiamo”.

Il dottor Joseph Habboushe di Manhattan ha aggiunto: “È più probabile avere un esito migliore del decorso curando i pazienti senza intubarli”. E Paul Mayo, specialista in terapia intensiva di New York, ha chiosato: “Attaccare un paziente a un ventilatore provoca una malattia nota come… essere attaccati al ventilatore”.

Thomas Voshaar, presidente della Associazione dei pneumologi tedeschi, è stato altrettanto schietto sui rischi di una ventilazione applicata in maniera eccessiva e prematura. Come ha dichiarato alla FAZ (Es wird zu häufig intubiert und invasiv beatmet, 7 aprile 2020):

“La ventilazione invasiva in ultima analisi è dannosa per i pazienti. Anche se il ventilatore è regolato in modo ottimale e la cura è perfetta, il trattamento comporta molte complicazioni. I polmoni sono sensibili a due cose: pressione in eccesso ed eccessiva concentrazione di ossigeno nell’aria fornita.
Bisogna anche sedare il paziente durante la ventilazione, portandolo in pratica fuori dal mondo, dato che non può più mangiare, bere e respirare da solo. È come prendere il controllo totale sull’organismo. Si può far entrare aria nei polmoni solo con una pressione eccessiva, mentre durante durante la respirazione spontanea accade esattamente l’opposto: l’aria entra nei polmoni attraverso una pressione negativa. L’insufficienza polmonare è spesso causata da una pressione troppo alta e troppo ossigeno.
[…] Solo il 20-50% dei pazienti Covid-19 attaccati al ventilatore finora è sopravvissuto. In tal caso, dovremmo chiederci se ciò è dovuto alla gravità e al decorso della malattia stessa, o forse al trattamento? Quando abbiamo visto i primi studi e relazioni dalla Cina e dall’Italia, ci siamo subito chiesti perché l’intubazione fosse usata in modo così esteso. Ciò contraddice la nostra esperienza clinica con la polmonite virale”.

Piuttosto che guarire le infezioni respiratorie, sembra quindi che i ventilatori le provochino: la soppressione del riflesso della tosse, necessaria per inserire il tubo del ventilatore nella trachea, impedisce infatti ai pazienti sedati di liberare le vie respiratorie. Ciò porta all’accumulo di liquidi che, insieme ai batteri che si formano attorno al corpo estraneo, alla fine provocano gravi infezioni batteriche.

Questa condizione è definita propriamente Ventilator-associated pneumonia (VAP), “polmonite associata al ventilatore”. Gli studi mostrano che tra l’8% e il 28% dei pazienti ventilati ne sono colpiti, e per il 20-55% di essi si rivela fatale.

Al di là del rischio di infezione, va aggiunto che il ventilatore, immettendo forzatamente aria dentro e fuori, alla fine rischia di danneggiare i polmoni anche in modo permanente. Questa conseguenza è definita appunto ventilator-induced lung injury “danno polmonare indotto dal ventilatore” e, anche se non uccide il paziente, può provocare danni a lungo termine.

Uno studio ha scoperto che, anche dopo la guarigione, il 58% dei pazienti ventilati muore entro l’anno successivo. In poche parole: se si attaccano a un ventilatore meccanico pazienti con patologie gravi (gravi problemi cardiaci, cancro, AIDS, diabete ecc…) nel momento in cui presentano i sintomi di una malattia simil-influenzale, si è certi che se ne ucciderà una parte non indifferente di essi.

Non sorprende perciò che il 66% dei pazienti del Regno Unito attaccati ai ventilatori stiano morendo. Un recente studio ha scoperto che a New York l’88% dei malati di coronavirus ventilati è deceduto, mentre oltre l’81%, in Italia e l’86% a Wuhan. Di contro la Corea del Sud ha riportato buoni risultati nel trattamento di pazienti Covid19 con altre forme di ossigenoterapia o “ventilazione non invasiva”.

La domanda sorge spontanea: se i ventilatori non sono raccomandati per le infezioni respiratorie, provocano più danni di quanti ne prevengono e sono meno efficaci della ventilazione non invasiva, perché sono così tanto utilizzati?

Una possibile spiegazione è che, secondo le linee guida dell’OMS (Modes of transmission of virus causing COVID-19, 29 marzo 2020), la ventilazione non invasiva potrebbe contribuire alla diffusione del virus attraverso l’aerosolizzazione (aerosolisation); tale indicazione è ripetuta nelle linee guida del Centers for Disease Control americano e del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie.

Il sistema nazionale inglese col protocollo del 19 marzo ha addirittura fatto un passo avanti, indicando la ventilazione meccanica  come opzione primaria rispetto alla ventilazione non invasiva o ad altre terapie con ossigeno. Ciò implica che gli ospedali utilizzino trattamenti notoriamente pericolosi solo per evitare una ipotetica diffusione del virus.

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