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Le “fosse comuni” in convento sono un topos della narrativa gotica protestante americana

La stampa internazionale, ormai da dieci anni a questa parte, rilancia costantemente il caso delle “fosse comuni” ritrovate nei pressi di un convento di Tuam, in Irlanda. La scoperta, in verità, riguarderebbe un cimitero in cui erano stati seppelliti dei bambini con tanto di certificato di morte (dai quali la storica che ha sollevato lo “scandalo” ha tratto il numero di 800 cadaverini…).

All’epoca (tra il 1925 e il 1961) la pratica delle sepolture comuni per bambini nati morti o deceduti dopo la nascita era in voga pressoché dappertutto, e in ogni caso solo l’1% di quei bambini, come si evince sempre dai certificati, sarebbe morto per malnutrizione (un tasso peraltro inferiore a quello nazionale dell’epoca).

L’emergere della verità non ha ovviamente impedito ai giornali di ricamare inchieste sulla perversità della religione cattolica, portatrice eterna di patriarcato, arretratezza, violenza e barbarie. In realtà proprio il tema delle “fosse comuni” nei pressi dei conventi sembrerebbe radicato nell’immaginario anti-cattolico, di stampo perlopiù massonico-protestante, che caratterizza il mondo occidentale americanizzato.

Nella metà del XIX secolo cominciarono a proliferare negli Stati Uniti romanzi ispirati a tale motivo: nel 1834, per esempio, circolò per mesi in forma di manoscritto Six Months in a Convent (“Sei mesi in un convento”) di Rebecca Reed (1813-1838), la storia di una giovane donna di fede episcopale “sequestrata” e tortutata da delle suore, la cui divulgazione portò all’assalto di un convento di orsoline a Charlestown (nei pressi di Boston), saccheggiato e incendiato da una folla di fanatici protestanti che aveva associato il resoconto (inventato) della Reed con una storia realmente avvenuta, cioè la “fuga” di mezza giornata di una giovane suora “affaticata dalle incombenze”, un caso subdolamente collegato dalla stampa anticattolica alla protagonista del romanzo.

Piuttosto che gettare acqua sul fuoco dopo l’assalto, i pubblicisti protestanti di Boston colsero l’occasione per stampare il volume e farlo diventare uno dei primi best-seller in lingua inglese dell’era moderna: 200.000 copie vendute tra Stati uniti e Inghilterra. Annusato l’affare, a New York l’anno dopo (1836) venne pubblicato Awful Disclosures of the Hôtel-Dieu Nunnery, nel quale la canadese Maria Monk (1816–1849) riferiva ai lettori i “tremendi segreti” di un convento delle religiose ospedaliere di San Giuseppe di Montreal. Tra le rivelazioni più sconvolgenti, quelli riguardanti le orge tra religiosi: la Monk narrava (con tanto di illustrazioni) storie di suore che dopo essersi sgravate dei bambini nati da una relazione illecita con un prelato, li battezzavano e li soffocavano all’istante, per poi gettare i corpi in un pozzo nei sotterranei del convento.

“La madre badessa soffoca un neonato”

Il libro vendette più del suo “precursore”, nonostante qualche mese dopo la pubblicazione la madre stessa della Monk, Isabella Mills, affermò che la figlia non era mai stata in un convento in vita sua ed era “malata in capo” [deranged in her head] dall’età di sette anni, quando si infilò una matita nell’orecchio. Tale precisazione ovviamente non fermò né il formarsi dell’ennesima leggenda nera (con tanto di turismo dell’orrore ante litteram nei pressi del convento) né la sua adozione immediata da parte del ceto intellettuale protestante, che cominciò a parlare di centinaia di bambini uccisi nei conventi e sepolti di nascosto per nascondere il frutto del peccato tra suore e preti “papisti”.

Non è quindi inusuale che tale “schema” venga applicato a molte delle notizie riguardanti le sepolture di bambini nei pressi di un convento con la certezza che “sia andata esattamente così”: i protestanti, anche in tempi “ecumenici”, assorbono questi pregiudizi ormai secolari direttamente dal latte delle madri. Certo, se si usassero certi “schemi” con altre confessioni (o etnie), i risultati sarebbero ben diversi in termini di “popolarità”…

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