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Le lingue inventate di Alessandro Bausani finalmente in una nuova edizione

È stato appena ristampato per i tipi della romana Reina de Jancour l’ormai introvabile Le lingue inventate, volume fondamentale del geniale e colpevolmente dimenticato Alessandro Bausani. Questa nuova edizione, meritevole nonostante qualche refuso di troppo, è arricchita da una importante presentazione dell’islamologo (non si può più dire “islamista”!) Giuliano Lancioni, che oltre a rievocare l’incontro personale col Maestro offre diversi spunti da cui rilanciare la figura di Bausani sia come poliglotta, che come linguista, storico delle religioni, traduttore, etnologo oltre che, naturalmente, intellettuale e uomo.

Lo scritto in sé è una guida alle cosiddette lingue artificiali che rispetto ai classici manuali regala approfondimenti e divagazioni da diverse prospettive, non solo culturali ma persino autobiografiche: le pagine più interessanti, in effetti, sono obiettivamente quelle in cui Bausani descrive la lingua inventata dall’amico E.J (che già nella Prefazione alla prima edizione italiana del 1974 rivela essere lui stesso), il markusko. Riportiamo qui di seguito ampi passaggi dal primo capitolo (“Lingua e invenzione”)

«In queste pagine mi limiterò ad accennare a una lingua infantile inedita, creata da un bambino italiano, E.J., e cresciuta con lui, si può dire, e man mano perfezioanta seguendolo prima nei suoi giochi, poi nei suoi studi e persino nelle sue prime prove poetiche. […]
L’origine di questa lingua sta in certi giochi che il soggetto faceva con i fratelli da bambino. Si erano divisi il modno e ognuno era ‘imperatore’ di una certa zona. Il nostro E.J. […] aveva posto [alle province del suo impero] il nome, piuttosto trasparente, di marku, da cui con il suffisso aggettivale -ska, la sua lingua si chiamò markuska […].
La prima fase consistette – e ve ne sono numerosi esempi in altre lingue infantili – nel capovolgere le parole italiane (olleb = ‘bello’, onoub = ‘buono” ecc.). Ma ben presto il bambino, non contento di questa banale semplicità, prese a creare un lessico e una morfologia autonomi. Molte radici furono create dalle parole italiane capovolte della primissima fase della lingua (che chiameremo pre-markuska) con deformazioni. Così bello, anziché olleb, si disse lev, buono, anziché onoub, divenne nuv, et similia. Per aumentare le radici senza troppi sforzi di ricerca (il lessico restò per lui infatti sempre la parte meno interessante della lingua) l’inverso del significato di una radice veniva ottenuto preponendole il prefisso en- (trasparentemente derivato dall’italiano ne o dal prefisso in- in infelice ecc.). Tale procedimento, identico a quello dell’esperanto (che tuttavia E.J. mi assicurò di non conoscere al momento della sua invenzione) non era universalmente durchgeführt: così ‘cattivo’ e ‘brutto’ era turp (il bambino fu molto soddisfatto quando si accorse che capovolgendo brutto in otturb e, abbreviandolo con le note regole, otteneva un qualcosa come turb/p singolarmente simile all’italiano ‘turpe’); solo per precisare, si poteva usare ennuv per cattivo e enlev per brutto. Altre radici hanno una curiosa origine ‘storica’: così, poiché uno dei suoi compagni di giochi si era messo, come ‘imperatore’, il nome di Vulkainsh (ma il suo cognome ‘normale’ era Guerreschi), guerra si disse vulk (ancora con somma soddisfazione del bambino che vi vedeva connessioni semantiche con ‘vulcano’, ‘vulcanico’, ecc.).
Il plurale in quella prima fase (che chiameremo proto-markuska) era in –ik, sia per i pronomi sia per i nomi: dai pronomi singolari oj = ‘io’, ut = ‘tu’, ig = ‘egli’, si aveva oik (< ojik, ‘noi’, utik, ‘voi’, igik, ‘essi’). In seguito, ‘per decreto’, il plurale dei nomi fu cambiato in -oj, ma i pronomi mantennero l’antico plurale, creandosi così, per gioco e inconsciamente, una doppia declinazione, nominale e pronominale, come in molte lingue vere! Anche altri elementi morfologici mutarono: soprattutto da notare la trasformazione del suffisso aggettivale da -iku in -ska, e la generale trasformazione delle radici della lingua da bisillabiche (in genere con finale vocalica in -u: marku, erru ecc.) in monosillabiche. Anche la sintassi subì dei mutamenti: da praticamente identica all’italiana (non però nella posizione dell’aggettivo e del genitivo che fu sin da tempi ‘antichi’ del tipo che i linguisti chiamano B-A), acquistò tratti sempre più complessi. Poiché la lingua fu usata anche per la poesia, si sviluppò uno ‘stile poetico’ molto libero sintatticamente e talora persino con varianti morfologiche rispetto alla lingua, molto più a ordine rigido, della prosa. La lingua venne sviluppandosi insieme al suo autore: una rudimentale storia, delle influenze straniere (parole di lingue europee od orientali studiate dall’inventore man mano che i suoi interessi linguistici si ampliavano), uno stile ‘antico’ e uno ‘moderno’ ecc.
[…] La parte più singolare del markusko è forse la sua sintassi. Sembra quasi che la morfologia agglutinante prediletta dall’autore lo abbia portato quasi insensibilmente a una sintassi ipotattica ‘a la turca’ partendo da una primitiva sintassi nettamente neolatina, soprattutto nel campo delle proposizioni subordinate. Si confrontino queste due possibilità (paleomarkuska e neomarkuska) di tradurre la frase “io dico che Carlo è venuto”

a) ridoj dazi Karl oendna
b) Karloizuri ridoj

(rid = ‘dire’; dna = ‘andare’; endna, col prefisso inversivo en- = ‘venire’, sostituito, in fasi più recenti, dalla radice semplice iz; dazi = ‘che’, derivato dal tedeco dass). Nello schema b) abbiamo un insieme Karl oiz = “Carlo è venuto” astratizzato dal suffisso -ur, Karloizur = “la venuta del passato di Carlo” e posto all’accusativo (Karloizuri) retto dal verbo ridoj. Più tardi, ad imitazione del turco, in casi analoghi, Karl si pose anche, facoltativamente, al genitivo: Karlo oizuri ridoj = “dico il venire passato di Carlo”, restando cioè fuori del composto.
[…] [Le poesie che E.J. componeva in markusko] hanno di ‘strano’ unicamente la lingua, ché anzi contenutisticamente e formalmente sono di un tipo fra il crepuscolare e il romantico, del tutto spregiato dall’autore nelle sue poesie in lingua italiana [… ]. Scelgo come esempio fra le numerose poesie e poesiole in markusko lasciatemi in eredità dal loro autore un esempio di alcune piccole composizioni sinteticissime di quatro versi, rimati abcb, vagamente simili alle tanka giapponesi:

kulkuvni kul odikko
likni vo leţţil
enpakkenţska ñagour
ometr vo cipil

Il nostro lettore capirà facilmente la poesiola soprascritta se tiene presente la descrizione sommaria della lingua data da noi sopra e i seguenti elementi lessicali: kul = ‘luce’; kuv = ‘foro’, ‘buco’, kulkuv = ‘finestra’; -ni suffisso locativo, dikk = ‘chiudere, spegnere’, lik = ‘cielo’, leţţ = ‘stella’, -il = suffisso di diminutivo, pakk = ‘capire’, ñago = ‘piangere’, da ña onomatopeico + go = ‘fare’, metr = ‘morire’, cip = ‘piccolo, bambino’. Cioè:

Alla finestra s’è spenta la luce
in cielo una piccola stella.
Un pianto che non capisce.
È morto un bambino».

Il motivo per cui questa parte è essenziale nella trattazione delle lingue inventate è che in Bausani i motivi autobiografici si intersecano continuamente con la scienza, a volte addirittura facendo sorgere il sospetto che tutto il saggio non sia che un “pretesto” per donare all’umanità un accenno di markusko.

Ad ogni modo, questa è la caratteristica che, nel bene e nel male, rende “unica” in tutti i sensi la figura di Bausani nel panorama culturale italiano: la trasformazione in scienza delle proprie fantasie. Nella “Presentazione” il professor Lancioni coglie perfettamente il punto richiamando la nota traduzione dello studioso del Corano, attraverso la quale “ha inventato un vero e proprio registro linguistico”, con misteriosi ed evocative espressioni sue proprie (come “le stanze intime, i venti che corrono, l’ora che cade, i ranghi serrati, […] gli esseri lancati e gli esseri strappanti, la percotente, il sopravveniente di notte”). Ancor più coraggiosamente, Lancioni sostiene che sia un peccato che “i musulmani italiani abbiano adottato la penosa traduzione del convertito Piccardo, in luogo della meravigliosa versione bausaniana”, perdendo così l’occasione di “modellare una vera e propria lingua liturgica, come la King James Version della Bibbia ha fatto per l’inglese”.

Il motivo fondamentale dietro l’occasione mancata è ovviamente l’appartenenza di Bausani alla corrente islamica eterodossa del bahá’ísmo, alla quale -non a caso?- si convertì anche la figlia di Zamenhof. Allargando però il discorso a tale ambito si correrebbe il rischio di passare dalle lingue inventate agli universi paralleli.

(Consiglio ad ogni modo l’acquisto del volume anche da parte dei miei lettori perché molto presto comincerò anch’io a scrivere in markusko certe cose che non si possono scrivere in alcuna lingua esistente).

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