«È necessario che noi diamo vita a strutture, nell’ambito delle quali possa svolgersi l’intera esistenza del singolo. Ogni attività e ogni bisogno di ciascun singolo sarà di conseguenza regolata dalla collettività rappresentata dal Partito. Non c’è più arbitrio, non ci sono più ambiti isolati, in cui il singolo appartiene soltanto a se stesso. […] L’epoca della felicità individuale è tramontata; per noi ci sarà, a sostituirla, una felicità collettiva. […] È ciò che soltanto le prime comunità cristiane possono aver provato con altrettanta intensità; e anch’esse sacrificavano la felicità del singolo in nome della superiore felicità in seno alla comunità».
Scoprire chi è l’autore di tale accorato appello non è semplice, soprattutto perché l’ingannevole riferimento alle “prime comunità cristiane” può portare a credere si tratti di un anonimo cattocomunista anni ’70 che solo si sia fatto un po’ troppo suggestionare dall’idea del “Grande Partito”. Invece l’augusto oratore che tenne tale discorsi ai prefetti dei Länder l’8 luglio del 1933 fu nientepopodimeno che… Adolf Hitler.
Difficile risalire alla catena di deliri sottoculturali che ha fatto balenare tale riferimento nella retorica nazista, tuttavia la macabra sciarada degli equivoci potrebbe continuare chiamando in causa un altro illustre esponente del Partito:
«Oggi certamente anche i preti cattolici predicano in tedesco –come se essi non avessero sempre fatto questo al di fuori dei seminari– tuttavia l’intera liturgia, le sentenze, e anche i canti e le formule delle preghiere, una parte del nostro semplice popolo la deve sempre ancora mormorare in lingua latina. La Chiesa non può abbandonare questo atto di violenza, perché essa deve difendere il suo carattere non-nazionale, i popoli tuttavia non possono più sopportare questo residuo barbaro e straniero».
Il passo è tratto da Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, libro considerato la seconda “bibbia” del nazionalismo dopo il Mein Kampf. Non sappiamo se tali argomenti tranchant siano stati poi effettivamente utilizzati decenni dopo da qualche sostenitore della riforma liturgica, notiamo però un fil rouge che tiene assieme l’aspirazione a un comunitarismo paleo-cristiano di Hitler e la nazionalizzazione della lingua sacra di Rosenberg.
Solo nel dopoguerra una certa filosofia Völkisch ha abbandonato qualsiasi riferimento al cristianesimo, per ridurlo a forza dissolutrice delle società omogenee e tribali esistenti prima dell’avvento di Cristo (da tale premessa deriva tutta la “religiosità seconda” neopagana). Al contrario, il cattolicesimo progressista ha mantenuto la dicotomia all’interno del cristianesimo stesso, separando il momento della verità di quella fede dalla successiva “contaminazione” con tutti i mali del mondo moderno e antico: imperialismo, trionfalismo, nazionalismo, razzismo, capitalismo, sessismo ecc…
In ogni caso, il mito delle “prime comunità” continua a sussistere per questi schieramenti all’apparenza così distanti. È il leitmotiv della “nostalgia delle origini” che caratterizza la necessità di “purezza” e “autenticità” e che a lungo ha costituito una invisibile “comunità d’intenti”, la cui manifestazione più importante che finora abbiamo scovato è la simpatia che Teilhard de Chardin riservò proprio al nazismo, anche se una ricerca approfondita porterebbe forse a scoprire molto di più: ricordiamo, per esempio, la “gioventù hitleriana” di un dom Hélder Câmara.
Oppure, per allargare il discorso, la simpatia che un pensatore René Guénon riscuote in alcuni passi di Jean Daniélou, per il quale scrisse anche un dimenticato necrologio (Grandeur et faiblesse de René Guénon, 1953). Non è un caso che le tradizionalissime edizioni Arkeois abbiano pubblicato ben dieci opere del cardinale alfiere del cattocomunismo, accanto a nomi come Titus Burckhardt, Malynski e de Poncins, Charbonneau-Lassay (lo ricordava un anonimo “Torquemada” in uno straordinario e controverso articolo per la rivista sedevacantista “Sodalitium”).
Lo scritto in questione (in italiano Grandezza e debolezza di René Guénon) dà la misura della divergenza a cui accennavamo più sopra: da una parte la “destra” (ma non consideriamo ovviamente Guénon al pari di un Rosenberg, nonostante Louis Pauwels sostenesse che il nazismo fosse “guenonismo realizzato coi carri armati e il filo spinato”), il quale considera il cristianesimo come la causa principale dell’allontanamento dell’uomo dalla tradizione, dall’unità e dalla perfezione; e dall’altra la “sinistra” che paradossalmente si avvicina più all’idea hitleriana di un cristianesimo come antidoto alla modernità e fautore di una “felicità superiore”.
Dunque bisogna fare molta attenzione a nascondere un mito regressivo con la retorica della “purezza” e della “originarietà”: soprattutto per i cristiani, che senza nemmeno accorgersene inseriscono nel proprio culto una caratteristica smaccatamente pagana (che va dai racconti sull’Età dell’Oro all’onnipresente “culto degli antenati”); ma anche per i “pagani” stessi, che si abbandonano al miraggio di una comunità perfettamente permeabile all’esterno la quale non è infine che un’espressione del “sogno proibito” rappresentato della modernità.