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Le rivolte del 1916 nell’Asia Centrale controllata dai russi

È stato di recente ristampato negli Stati Uniti The Revolt of 1916 in Russian Central Asia dello storico Edward Dennis Sokol (1923–2014): il volume, seppur datato (la prima edizione è del 1954) e talvolta anacronistico, offre ugualmente alcuni spunti interessanti su un periodo riguardo al quale le fonti sono decisamente avare.

Nell’Asia Centrale sotto il dominio russo degli inizi del XX secolo i nomadi turchici rappresentavano un terzo della popolazione, mentre il resto era composto da sarti e tagiki, oltre che armeni, persiani, ebrei e minoranze russe: di tali popolazioni alcune, come i tagiki, erano di origine iranica e si dedicavano all’agricoltura; altre, come kirghisi e kazaki (ai tempi dello zar entrambi i popoli venivano definiti “kirghisi”, per distinguere i kazaki dai cosacchi [казак] veri e propri), erano turco-mongoliche e vivevano in tende coniche (kibitka) come nomadi.

Come segnalato nell’introduzione, i popoli insediati nella valle del Fergana (Uzbekistan orientale, Tagikistan settentrionale e Kirghizistan meridionale) sono indicati da Sokol appunto come sarti (“sedentari”), formula che mantengo per rispetto nei confronti dell’Autore.

I kazaki occupavano l’area della steppa del Kirghiz (oggi Kazakistan), mentre i kirghisi vagavano per la regione dello T’ien Shan e del Pamir. Anche i turcomanni del sud-ovest del Turkistan sono di stirpe turco-mongolica: si tratta di un popolo nomade che, a differenza dei sarti, oppose una fortissima resistenza alla conquista russa (si arrese solo dopo l’assedio di Geok Tepe [Gökdepe] nel 1881). Un tempo dediti al saccheggio, con le loro incursioni giunsero oltre l’Afghanistan occidentale, dove rapirono delle donne persiane da vendere nei mercati di schiavi di Khiva e Bukhara.

I turcomanni, insieme agli altri popoli nomadi, costituivano il 30% della popolazione totale dell’Asia centrale russa. Oltre al ceppo puro, la popolazione sedentaria comprendeva un insieme di popolazioni turco-mongole e iraniche, come sarti e uzbeki: si pensa che questi ultimi siano collegati ai turchi selgiuchidi, sebbene nelle loro vene scorresse parecchio sangue iranico. Sia i sarti che gli uzbeki vengono definiti da Sokol “gran lavoratori”.

Una menzione meritano anche gli oltre duecentomila ebrei autoctoni che, concentrati specialmente a Samarcanda, prosperarono nel commercio del cotone. La composizione etnica si arricchì con l’afflusso degli ebrei russi nel Paese, e ulteriori elementi “allogeni” vennero rappresentati dai persiani (in veste di commercianti, artigiani e operai), dagli armeni e da altre popolazioni del Caucaso.

Lo sviluppo della rotta marittima verso l’India in seguito alla scoperta del Capo di Buona Speranza portò al declino della Via della Seta: dallo spostamento delle rotte commerciali iniziò l’impoverimento e la stagnazione dell’Asia centrale, rafforzato culturalmente dalla rigidità e dal conservatorismo della dottrina islamica.

I nomadi kazaki e kirghisi praticavamo perlopiù culti sciamanici, almeno fino a quando i conquistatori russi decisero di convertirli all’Islam tra il XVI e il XVII secolo; come scrive ancora Sokol citando lo storico e diplomatico americano Eugene Schuyler (1840–1890):

«Per quanto possa apparire singolare, furono i russi a convertire i kazaki dallo sciamanesimo all’islam. In principio solo alcuni dei loro sultani e capi avevano un’idea delle dottrine dell’islam e non c’era una sola moschea o un solo mullah nella steppa, ma i russi […] insistevano nel trattare i kazaki come se fossero maomettani, dunque costruirono moschee e inviarono dei mullah, fino a che tutto il popolo si convertì all’islam almeno a livello di pratiche esteriori, anche se la fede si affievoliva quanto più ci si allontanava dalle linee russe e quanto più si avvicinava alle popolazioni stanziali. Sia tra kirghisi e kazaki che tra i turcomanni, i mullah erano poco rispettati […]. [Queste popolazioni] raramente pregavano, e mescolavano la loro fede con le superstizioni pagane».

I rapporti commerciali tra Russia e Asia Centrale durante i primi decenni del XIX secolo furono insignificante; la rotta cominciò a svilupparsi nella seconda metà dell’Ottocento, in particolare grazie alla repressione del brigantaggio. La guerra civile americana fece alzare il prezzo del cotone fino a costringere l’Impero zarista a importare varietà di qualità minore dall’Asia Centrale: la “corsa al cotone” coinvolse in particolare la valle del Fergana (divisa oggi tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan).

L’instabilità dei prezzi del cotone, l’usura e le tasse elevate impoverirono i piccoli agricoltori in maniera inversamente proporzionale ai latifondisti. La presenza dei coloni russi ebbe comunque pochi tratti in comune con quella, per esempio, degli inglesi in India, poiché tale tipo di manodopera si prestava a qualsiasi tipo di occupazione: caratteristica che fece entrare i lavoratori russi in competizione con la manodopera locale in ogni campo, dalle attività tradizionali -come l’agricoltura- alle nascenti industrie come quella ferroviaria. Il governo russo, intenzionato a slavizzare le terre asiatiche per alleviare la miseria interna e superare i paradossi causati dall’abolizione della servitù della gleba, tolse le terre migliori ai nomadi ormai sedentarizzati per offrirle ai propri coloni.

La politica mercantilistica russa (fatta perlopiù di vodka, sigarette e stivali laccati) fece indebitare molti nomadi, li ridusse a braccianti, tolse loro le terre e causò la drastica diminuzione della quantità di armenti in loro possesso. Nei confronti delle tribù nomadi i colonizzatori praticarono il divide et impera, offrendo ad alcune di esse la possibilità di eleggere un capo, il quale poteva poi favorire i propri sostenitori e danneggiare gli avversari. Tale sistema permise alle divisioni di “partito” di minare i tradizionali raggruppamenti tribali.

La resistenza al dominio straniero si fece particolarmente sentire nella valle del Fergana, centro dell’antico Khanato di Kokand, nonostante alla fin fine essa si tradusse solo in azioni di brigantaggio: i russi, poco impensieriti, etichettarono i banditi come “khan fantocci”, perché alcuni di loro covavano la speranza di ripristinare il khanato.

Nel maggio del 1898 in uno uezd (suddivisione amministrativa) della valle del Fergana un predicatore islamista, Mahomet-Ali-Khalfa (conosciuto come “Madali”), al quale venivano attribuite doti magiche (per esempio saper cucinare il riso senza usare il fuoco) radunò un piccolo esercito in nome della gazavat (газават), la guerra santa contro la decadente società russa.

La rivolta colse di sorpresa gli occupanti ma fu rapidamente repressa: immediatamente si sospettò dietro di essa l’influenza di qualche sobillatore ottomano, anche se gli effimeri contatti tra Madali e gli emissari del Sultano non valsero come prova di un reale interesse dei turchi. In ogni caso il potere zarista preferì attribuire i tumulti nella regione al panislamismo piuttosto che al proprio malgoverno.

Nelle aree più progredite, i sarti si rivolsero agli jadid, la minoranza islamica riformista ostile al clero, la quale si era posta come missione l’istruzione delle masse. Anche la classe media russa della valle del Fergana era di orientamento liberale, mentre tra gli operai serpeggiavano già idee socialiste.

La mancanza di alfabetizzazione, la debolezza del clero e l’isolamento impedì invece lo sviluppo politico di kirghisi e kazaki (Grigorij Broido, il primo segretario del Partito comunista del Tagikistan scrisse di loro che «non sapevano scrivere in arabo e non leggevano alcun libro, forse nemmeno il Corano»), che infatti non presero parte alla rivoluzione del 1905 e, invece di approfittare del caos politico russo, reagirono, secondo la tradizione nomadica, con incursioni e razzie.

Durante la Grande Guerra, l’Impero per un lungo periodo non richiese truppe all’Asia Centrale: in compenso pretese materiale di ogni tipo, dal cotone alla carne, dal sapone al feltro, dai cammelli ai cavalli. Tedeschi e turchi esercitarono pochissima influenza nell’area nei primi due anni di guerra, e anche gli appelli al panislamismo caddero nell’indifferenza.

Quando i soldati cominciano a scarseggiare, la Russia decise di arruolare 250.000 uomini dell’Asia Centrale, circa l’8% della popolazione, lasciando la responsabilità della coscrizione ai governanti locali. La tensione tra i sarti, già fomentata dai prezzi bloccati del cotone e l’aumento del costo dei generi alimentari, aumentò all’idea di fare da carne da cannone per Mosca.

I rapporti dell’epoca dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, descrivono masse di musulmani disposte a interrompere le celebrazioni notturne per il Ramadan e recarsi nelle moschee solo per la preghiera, iniziativa che suscitata sicuramente il timore di una rivolta generale islamica in occasione del 18 luglio, primo giorno dell’Id al-fitr, la “festa dell’interruzione” (del digiuno). In aggiunta a tale protesto, gli agenti dello zar riferivano di numerosi elementi del popolo di desiderosi di “saldare i conti” con chiunque avesse l’opportunità di evitare la coscrizione in base al ceto: in effetti dopo le prime rivolte, sembra che gli ottimati di Tashkent e Samarcanda avessero lasciato le città.

La mattina del 13 giugno 1916 un ufficiale giudiziario del distretto venne ucciso dopo che aveva minacciato la folla con una pistola: in conseguenza di ciò fu indetto il gazavat e Nazir Khoja fu proclamato bek. Gli insorti, armati di bastoni, coltelli, falci e spade, presero il controllo dell’intera valle del Fergana, uccisero i funzionari del volost‘ e gli jigit (i “messaggeri” a cavallo) e distrussero ferrovie, ponti e linee telegrafiche, assaltando un treno e colpendo anche lavoratori di origine russa.

L’obiettivo dei ribelli a quel punto non era più evitare la coscrizione, ma ottenere direttamente l’indipendenza (magari contando su un aiuto tedesco, in realtà mai giunto). Le truppe russe e i cosacchi impiegarono due settimane per riprendere il controllo dell’area (26-27 luglio): la durezza della reazione convinse i sarti ad arrendersi e ad accettare la coscrizione.

Altre sacche di resistenza vennero alimentate da kirghisi e kazaki, che formarono bande e uccisero anch’essi funzionari locali; tuttavia le rivolte nella parte kazaka della steppa non incisero più di tanto: una maggiore integrazione con i russi, la mancanza di un leader, la bassa densità di popolazione e la scarsità degli armamenti (spade e asce fatte a mano) le resero più effimere delle altre. Molti nomadi della parte orientale (Semipalatinsk) emigrarono nello Xinjiang coi loro armenti.

Per evitare una rivolta alla coscrizione anche nel Semireč’e (parte sud-orientale dell’attuale Kazakistan), area maggiormente colonizzata dai russi (ne ospitava il 60%, 300.000 su 500.000, dell’intera Asia centrale), il governatore divise l’oblast in 17 sezioni ognuna sorvegliata da un comandante con relative truppe e inviò una parte considerevole delle forze alla frontiera con la Cina, per impedire che altri fuggissero, senza però riuscire a trattenere i famigerati dungani (musulmani di etnia cinese).

Nell’agosto 1916 i kirghisi insorsero, si organizzarono in orde e diedero il via a stupri, saccheggi e incendi, animando i momenti più violenti della ribellione, incoraggiata da una razzia di armamenti:

«Grande importanza nel convertire la resistenza passiva dei nativi del Semireč’e in attiva fu un episodio che ebbe luogo vicino a Rybachev nell’uezd di Przhevalsk prima dello scoppio della rivolta. Il 6-7 agosto una banda di kirghisi assaltò un convoglio di soldati che scortavano un trasporto di armi e munizioni. Uccisero i soldati e si presero il carico di 200 fucili e 3000 cartucce. I nomadi furono galvanizzati da quella che sembrava una riserva inesauribile di armamenti, essendo poco abituati ad avere a che fare con così tante munizioni».

L’assedio di 4000 kirghisi divisi in una trentina di unità di Tokmak (nell’uezd di Biškek) condotto per una settimana da ogni lato si rivelò comunque fallimentare: l’arrivo di unità russe in soccorso con mitragliatrici e cannoni impedì loro di penetrare nella città. Gli assalti kirghisi furono così furiosi che, nonostante il fuoco della mitragliatrice (che falciava intere file), i ribelli si gettarono all’attacco per tre volte.

Per stroncare definitivamente la ribellione, il Ministro della guerra dell’Impero russo, generale Kuropatkin, diede l’ordine di “non risparmiare le cartucce” (anche se nei suoi diari poi annotò che “i soldati russi hanno dimostrato davvero poco onore nel reprimere la rivolta”): interi villaggi vennero rasi al suolo dal fuoco di artiglieria, i civili sterminati a migliaia, gli accampamenti dei nomadi dati alle fiamme e il loro bestiame sequestrato (in modo da sottrarre alla popolazione locale la sua primaria fonte di sostentamento). Alla fine il governo si servì anche dei coloni russi, assetati di vendetta, che massacrarono indiscriminatamente i kirghisi (il 13 agosto ne ammazzarono oltre 500 in un giorno), perché “chiunque difenda un kirghiso viene considerato ora un traditore” (sempre Kuropatkin).

I musulmani cinesi nell’Asia centrale, quei dungani evocati più sopra (che avevano mantenuto stretti contatti con quelli dello Xinjiang e ovviamente con la popolazione uigura) si unirono ai kirghisi in rivolta per vendicarsi del controllo russo sul traffico di oppio, attività che tradizionalmente praticavano loro stessi: quando le cose si misero male, decisero di passare il confine cinese portandosi dietro la maggior parte del “raccolto”. Nel settembre del 1916 ad essi si aggregarono circa centomila kirghisi, che durante il viaggio persero quasi tutti i loro armenti e si presentarono ai cinesi in veste di veri e propri “rifugiati”. Dopo una timida accoglienza iniziale, vennero comunque rispediti a casa, soprattutto per il timore da parte di Pechino di insorgenze musulmane nell’ovest del Paese, oltre che per problemi di ordine pubblico e igiene (epidemie di tifo) – non prima naturalmente di essere espropriati dei loro beni (mandrie, armi e persino donne).

Anche quest’ultimo episodio della ribellione fu costellata da episodi particolarmente cruenti, come il massacro di donne e bambini portati dai kirghisi in Cina come ostaggi, uccisi per rappresaglia contro i tentativi del console di liberarli; oppure le violenze dei calmucchi contro gli stessi kirghisi, per vendetta dei massacri compiuti da essi 150 anni prima.

La colonizzazione russa del Turkmenistan fu marginale, quindi la regione rimase relativamente tranquilla. Solo la tribù degli yomud (o yomut) insorse al confine persiano. ma venne subito ricacciata sulle montagne e privata di pecore e cammelli dai cosacchi.

In generale la Russia ha perso più uomini nelle ribellioni che in tutte le sue campagne in Asia centrale del XIX secolo messe assieme: i numeri più alti di vittime civili russe si registrarono in quelle aree dove i coloni finirono per trovarsi in competizione con le popolazioni locali per il controllo delle terre. Le ribellioni colsero di sorpresa non solo l’Okhrana, ma anche le diverse fazioni dell’islam centroasiatico, per esempio gli jadid e i panislamisti. Le autorità russe tentarono di individuare sobillatori stranieri, come agenti tedeschi, panislamisti turchi o musulmani cinesi, ma secondo Sokol le rivolte furono assolutamente spontanee…

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