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Leggere (e scrivere) tutti i libri

Dopo innumerevoli tentativi di adattare i miei occhi agli e-reader, ammetto con mestizia di essermi arreso e di aver fatto un umiliante ritorno alla carta; in verità, anche se da bravo “idiota tecnologico” li avevo magnificati come mezzo elettivo della tuttologia (la disciplina nella quale ho deciso di specializzarmi), in segreto ho continuato ad affidarmi a formati più eye-friendly come gli incunaboli, i sefer e le xilografie.

Sia chiaro: non sono un feticista dell’odore dei libri, anzi la trovo una romanticizzazione ridicola, soprattutto in un momento in cui si acquistano esemplari con la consapevolezza che dureranno meno di qualche decennio, prima di squadernarsi o sfaldarsi per la loro pessima qualità (alcuni reparti di una delle librerie più importanti di Milano hanno lo stesso aroma caratteristico delle edicole balneari anni ’90 –ricorda alla lontana l’olezzo degli involtini cinesi–, quello della peggior carta possibile su cui si stampavano i gialli da spiaggia), oppure finire direttamente in discarica seguendo quello che è già il triste destino di tonnellate di enciclopedie ed edizioni dei book club nostrani (ancora particolarmente attivi nei loro appostamenti metropolitani).

Non posso nemmeno condividere (almeno non del tutto) le note argomentazioni di Nicholas Carr sulla superiorità dei volumi cartacei rispetto a quelli “digitali” espressa nel fortunato volume Internet ci rende stupidi? (Raffaello Cortina, Milano, 2011, pp. 125-126):

«Su un libro l’esperienza della lettura tende a essere migliore. Le parole stampate su una pagina con inchiostro nero sono più facili da leggere di quelle formate da pixel su uno schermo retroilluminato. Puoi leggere una decina o un centinaio di pagine stampate senza sentire gli occhi affaticati come accade anche dopo un breve periodo di lettura sullo schermo. Orientarsi in un libro è semplice e, come dicono i programmatori, più intuitivo. Puoi far scorrere le pagine reali molto più velocemente e facilmente rispetto a quelle virtuali. E puoi scrivere appunti sui margini o evidenziare i passaggi che ritiene più commoventi o ispirati. Puoi anche chiedere all’autore del libro di firmare il frontespizio. Quando hai finito di leggerlo puoi usarlo per riempire uno spazio vuoto della libreria o prestarlo a un amico».

Come al solito, si chiama in causa la “digitalizzazione” (è sempre colpa dei robot!), ma certe critiche lasciano comunque il tempo che trovano, e in alcuni casi possono persino addebitarsi, per citare ancora Carr, al «tipico rimbambimento di mezza età» (p. 31).

Osservazioni simili, seppur più ficcanti, si trovano ne Il segreto del bibliotecario (Bonnard, Milano, 2005) di Michel Melot, nel quale l’Autore, dopo aver elogiato la “felice incompletezza” delle biblioteche, propinato alcune immagini idilliache sull’origine del pensiero occidentale («dalla piegatura [di un foglio] nasce quella forma di pensiero che è la dialettica, che si articola al ritmo delle pagine che si sfogliano») e rinverdito i fasti della filologia fai-da-te («il latino pagus, da cui deriva il termine “pagina”, ha dato anche origine al termine “paese”, evocando forse i solchi dei campi o i filari dei vigneti, entrambi disposti come una pagina di scrittura»), alla fine non nasconde il segreto della filanda editoriale: «Il libro stampato si è retto su due gambe che l’hanno portato fino ai nostri giorni: la libertà di coscienza e il capitalismo» (p. 42).

Non è tale impostazione a ispirare la mia “resa”: anzi, per certi versi sono ancora persuaso che un kindle possa offrire l’incredibile opportunità di leggere tutto internet, cioè ridurre in formato tascabile ogni testimonianza reperibile online. Devo però ammettere, anche in tal caso, che dopo aver scoperto le virtù delle cosiddette “cartucce compatibili”, è rinato in me l’antico sogno di stampare tutto internet (Printing out the Internet), utopia sopita da avvilenti compromessi col digitale.

Ecco, neanche in questo l’e-reader riesce più a convincermi. Per ogni possibilità che offre, saltano fuori decine di problemi: pensiamo solo al rischio che comporta avere in tasca un’intera biblioteca in un formato che, per il malfattore di turno, detiene un valore incredibilmente superiore a quello di un semplice libro. Mi immagino solo se la tragedia si consumasse durante una delle mie noiosissime vacanze: sarebbe come trovarsi con un “mondo senza testa” per le strade di Vienna.

Volendo lasciare però da parte tutti gli inconvenienti indipendenti dall’oggetto (mica è colpa di quelli che producono il kindle se i mezzi pubblici sono rigonfi di malandrini e grassatori… o forse sì?!), e limitandosi solo all’esperienza di lettura in se stessa, è necessario rimarcare l’affaticamento degli occhi come una delle conseguenze meno piacevoli. Nonostante le rassicurazioni degli oculisti, con la lettura digitale ci si accorge delle esigenze dei nostri yeux de chair, come li chiama Merleau-Ponty, questi poveri occhi che sono «computer del mondo che hanno il dono del visibile così come si dice che l’uomo ispirato ha il dono delle lingue» (L’occhio e lo spirito, SE Milano, 1989, p. 22).

La nostra tecnologia è ancora troppo rudimentale e pionieristica per essere accettata in modo acritico (soprattutto in ambito scolastico); non potendo ancora leggere tutto internet, in molti casi bisogna sempre stamparlo. Si rende quindi auspicabile un perfezionamento dell’esperienza di lettura digitale poiché, sempre come afferma Merleau-Ponty, «ogni tecnica è una “tecnica del corpo” […] [che] raffigura e amplifica la struttura metafisica della nostra carne».

La lotta tra il book e l’e-book è dunque ancora aperta, e ovviamente va al di là delle ridicole motivazioni a cui si è appena accennato. Allargando la prospettiva, la querelle si inquadra direttamente nei rapporti tra cultura e tecnologia. Le posizioni che si delineano oggi in fondo sono le stesse di coloro che, a loro tempo, si trovarono a fronteggiare le invenzioni di Theuth e Gutenberg: agli anatemi socratici contro la parola scritta si opposero i sofisti, gloriosi padrini dell’industria culturale; alle ansie umanistiche di fronte alla massa di libri riversata sull’Europa, risposero le follie rinascimentali di arti e teatri della memoria.

Sembra che una simile reazione si stia verificando persino ai nostri giorni: è sintomatico che negli ultimi anni i volumi di self-help su come non dimenticarsi nulla e le iniziative per attualizzare le varie mnemotecniche si siano moltiplicate (ricordiamo, tanto per citare, il “caso” Joshua Foer, le mappe mentali di Tony Buzan, Memrise di Ed Cook).

Schierato da una parte o dall’altra, l’intellettuale si trova in ogni caso a competere con la tecnologia della sua epoca, che ora è chiaramente rappresentata dall’Internet (e tutto ciò che il termine implica o sottace): si può fingere che non esista, oppure considerarlo una “tentazione”, e perciò continuare in eterno a non verificare le fonti di seconda mano da cui si attinge (o affidarsi a traslitterazioni immaginarie di nomi in russo, arabo o cinese); oppure si può accettare come “mezzo neutrale” e tuttavia dimenticarsi che tale neutralità comporta anche la scomparsa (o neutralizzazione, appunto) dei suoi propugnatori.

Se i seguaci del primo indirizzo si negano la cornucopia, i filoneisti invece si lasciano sopraffare dall’entusiasmo, trasformando, per riprendere gli esempi storici di cui sopra, la retorica in un mezzo per impossessarsi del potere e la mnemotecnica in un’arte magica attraverso la quale afferrare l’essenza intima dell’universo.

È per certi versi provvidenziale che internet sia spuntato fuori quando le grandi ideologie agonizzavano, altrimenti chissà quale progetto religioso-politico sarebbe sorto dalla fusione delle diverse hybris (attualmente ne abbiamo qualche sbiadito esempio, ma non è che la ripetizione farsesca a tragedie già viste).

Dicevamo, infine, del ritorno alla carta. Per quanto mi riguarda, sto ancora cercando un modo per venire a capo della mia biblioteca: prima o poi dovrò far qualcosa con questo ammasso di oggetti inutili. Nella mia cameretta, che già fu un porto, ultimamente c’è aria di sbaraccamento (prima o poi doveva accadere); mi irrita tuttavia non aver potuto legger tutti i libri (e intristirmi la carne), nonostante una giovinezza passata a dare alla mia biblioteca una forma che mi corrisponda (non che debba per forza morire una volta lontano dalla patria-nido, ma tutto può succedere e non voglio lasciarmi dietro una menzogna lunga diecimila volumi).

Per restare in tema, sicuramente tutti conosceranno il “discorso” di Walter Benjamin sul collezionismo, Ich packe meine Bibliothek aus (“Tolgo la mia biblioteca dalle casse”, nel quarto volume delle Opere complete, Scritti 1930-1931); se non l’avete letto non importa, tanto a Benjamin si può far dire quello che si vuole.

Il filosofo sostiene che non sono i libri a vivere nel collezionista, ma è lui a vivere attraverso essi: anzi, è solo col venir meno dell’ingombrante presenza del proprietario che una collezione può finalmente parlare per se stessa.

Come Benjamin, si parva licet, anche il sottoscritto ha dovuto malgré lui abbandonare l’epoca marziale [martialisches Zeitalter] in cui solo i libri letti avevano diritto di comparire sugli scaffali, per passare alla fase del collezionismo come art pour l’art: al pari dei tedeschi (compresi gli aspiranti tali), ci si è dovuti arrendere all’Inflation. Pare tuttavia che l’idea del “debito come colpa” (Schuld/Schulden), anch’essa sfortunatamente molto crauta, abbia accompagnato il Nostro fino all’ultimo, se è vero, come sostiene la Arendt, che Benjamin si sia tolto la vita per aver perso la sua biblioteca (metà andata alla Gestapo e metà chissà dove). Poi in verità il destino della collezione del filosofo è stato quasi identico a quello di tutte le altre: i volumi, recuperati dai russi, sono stati trasferiti all’Akademie der Künste a Berlino, e sono ancora lì conservati in un apposito Archiv.

Nella sua fuga, Benjamin riuscì a portare con sé solamente il manoscritto del Passagen-Werk: se egli fosse stato quel Wuz da lui stesso evocato, il “giocondo maestrino” che entrava nelle librerie, annotava i titoli più interessanti e poi tornava a casa a scriversi i libri da solo, si sarebbe potuto accontentare di un surrogato di biblioteca (per giunta dai posteri considerato piuttosto pregiato e intimo).

Eppure non si riesce mai a essere lettori puri e basta: oltre al fardello dei libri non letti, una biblioteca comporta anche l’incarco di quelli non scritti. L’illusione del Ragazzoni, che il “non scrivere” fosse il lavoro dei lavori, oggi ha ancor meno senso di allora (quando c’era almeno l’alibi della penuria di mezzi). Il paradosso di chi torna alla lettura in cartaceo per migliorare la propria scrittura in digitale fa parte dello spirito dei tempi, che impone di scrivere tutto ciò che si può scrivere. Ormai è superfluo procrastinare qualsiasi parola, poiché già ci troviamo nel migliore dei mondi possibili, dove un diario segreto e una biblioteca privata restano tali anche quando accessibili al mondo intero.

È soprattutto di esaurimento di una biblioteca, della stessa biblioteca de Babel, che si deve quindi parlare, nell’illusione di aver a che fare con un che di finito in rapporto a un “digitale” che è già noosfera e intelletto agente, e che reclama uno spazio assoluto, impossibile da inquadrare nei margini di una pagina. Soltanto da questa dicotomia credo possano svilupparsi nuove possibilità per l’intelligenza: da una parte la biblioteca, dall’altra l’internet. E anche l’inesauribile sarà finalmente esaurito.

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