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Leggere la Peste prima della Peste (2005-2020)

Due recensioni del classico di Camus, una risalente al 2005 (emersa dal fallimentare tentativo di risalire a tutto quello che ho scritto sul web negli ultimi vent’anni) e una al 2020, entrambe a opera del sottoscritto. Al lettore giudicare se l’autore sia migliorato oppure abbia perso tutta la sua “vena”.

Déclarez l’état de peste. Fermez la ville.

 

La Peste (2005)

Non so bene cosa pensassi di trovare in un romanzo sulla Peste: sicuramente è metafora di qualcosa che mi sfugge (il fascismo? la guerra? la condizione umana?). Manca completamente qualsiasi climax manzoniano: il flagello camusiano è solo una passione spenta. Quasi di maniera il tutto: la scena del teatro che si svuota mentre è in scena l‘Orfeo di Gluck è già il cinema francese del Novecento in nuce.

L’esistenzialismo dell’Autore non è poi così tragico: “Gli uomini sono buoni piuttosto che malvagi”. La figura del prete è la meno dostojevskiana che ci sia: mediocre come l’ordine della peste. Credevo di cavarmela facilmente con uno di quei “libri che vanno letti prima di morire”,  e invece fatico a trovare le parole per descriverlo. Non c’è vero nichilismo in questo libro: Camus riduce la Peste a una “rovina del turismo” (sic) e ai piagnistei degli amanti (“Il morbo dava alla loro separazione dei rischi di essere eterna”: ma cos’è, un Harmony?).

Manzoni finisce invece in ben altre tenebre, con quegli straordinari monatti, veri dandy dello sterminio (“Alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria in tanto pubblico lutto”), e poi la madre di Cecilia, la ricca mercantessa e il più innocente e santo di tutti, Don Rodrigo, il nostro signorotto selvatico che all’amore preferisce la morte: “Gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti” per dimenticare una montanara. Per non dire di Renzo (per il quale la peste è “una occasion così bella”) e ancora dei monatti che fanno a posto alla morticina… Dov’è tutto questo in Camus?

L’unica figura religiosa del romanzo, quel prete disarmante, sembra Michel Piccoli che interpreta Yves Congar o von Balthasar in un film di Buñuel: Come parli frate? Una nullità spirituale, al confronto della madre di Cecilia che sussurra ai monatti “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”. Nessun brivido col buon Albert: la peste è un ospite discreto, suscita sermoni e colloqui interiori, oltre che “sentimenti monotoni”. Forse la vita è solo questo, una lunga chiacchierata verso il nulla, “suonare il tamburello davanti al genio della peste?”. E gli abitanti di Orano così buoni che non rubano, non uccidono, non ungono… Solo alla fine una sparatoria insensata, quasi asettica nel suo essere dettata da un esaurimento nervoso. Ma perché? Ci si identifica più nel cane caduto per le mitragliate di Cottard che in tutte le vittime del romanzo.

La Peste (2020)

Chi ha resistito alla tentazione di non leggere o rileggere la Peste di Camus? La prima volta non mi aveva detto nulla. Ora invece alcuni passaggi hanno finalmente mosso qualche corda: e no, il covid non c’entra. Parlo di grands sentiments, della descrizione, per esempio, degli amanti di Orano divisi dal flagello:

“Se pensavano alla peste, era sempre nella misura per cui il morbo dava alla loro separazione dei rischi d’essere eterna. Portavano quindi nel cuore stesso dell’epidemia una distrazione salutare, che si era tentati di prendere per sangue freddo. La disperazione li salvava dal panico;  il dolore, per essi, aveva qualcosa di buono. A esempio, se accadeva che uno di loro fosse portato via dal male, era quasi sempre senza che avesse avuto il tempo di riguardarsene. Tratto dalla lunga conversazione intima che sosteneva con un’ombra, egli era gettato allora, senza transizione, nel più fitto silenzio della terra. Non aveva tempo per niente”.

Suggestioni che, con l’intensificarsi del desiderio di trovare una donna (dettato più dal semplice scorrere degli anni che da una reale “maturazione”), acquistano un minimo di senso. Non val la pena ridurre questo capolavoro a un trattato di politica e psicologia delle epidemie (“Quella peste era la rovina del turismo”; “Non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva”; “Il desiderio di essere seppelliti decentemente era più diffuso di quanto non si creda”), nonostante la descrizione dell’ordre même de la peste come il più mediocre in assoluto, quello che estingue i grands sentiments appena evocati in favore della monotonia, colpisca anch’essa nel profondo. “Tutta la città somigliava a un’anticamera”; “Tutto quel tempo non fu che un lungo sonno”, Tout ce temps ne fut qu’un long sommeil, ben rappresentato dall’orchestra rimasta bloccata in città che esegue l’Orfeo di Gluck una volta a settimana, come in un’allucinazione.

Anch’io ho dormito a lungo in questo periodo, long temps d’exil, il più triste e miserabile della mia vita. L’habitude du désespoir est pire que le désespoir lui-même. “L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa”. L’ange de la peste si è impossessato fin troppo della mia penna. Adesso però è il momento di finirla.

Alla fine il buon Camus è riuscito a rappresentare la condizione umana da una prospettiva universale, seppur per la via stretta di un’ispirazione che in chiunque altro avrebbe finito per risultare anacronistica. È noto infatti, a detta dell’Autore stesso, che l’epidemia non è che una metafora della lotta contro il nazifascismo. D’altro canto concetti come la “legge dei cuori onesti”, il “partito delle vittime”, oppure della bontà che prevale sulla malvagità, espressi esplicitamente nel capolavoro, rappresentano tracce di un umanesimo che col senno di poi si fa fatica a considerare esistenzialista o tragico, né ancor meno “stirneriano” come parve all’epoca.

Siamo davvero in un altro evo, e lo si evince pure nei dettagli, come il fatto che a nessuno verrebbe in mente di citare La Peste nel suo originario significato politico: penso a una recente intervista a Eugenio Borgna (Panorama, 18 marzo 2020), nella quale il noto psichiatra alla domanda “Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?” perde un’occasione d’oro per dirozzare il mainstream e, pur evocando il parallelo tra peste e guerra, si perde in memorie d’infanzia che, per quanto pregevoli, lasciano il tempo che trovano:

“Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi”.

Camus l’aveva detta meglio, semplicemente non dicendola. Non è così facile parlare della propria esistenza, soprattutto per chi si è trincerato per una vita dietro la “cultura”. Talvolta è sfiancante persino lamentarsi, come nelle circostanze attuali che mi hanno colto totalmente alla sprovvista e quasi tolto la capacità di scrivere. Non mi arrenderò tuttavia all’obbligo di appiattire ancora i grands sentiments alla politica, o addirittura alla sanità (come sta accadendo oggi con l’austerity biologica a cui ci stanno sottoponendo). Forse posso concedere qualcosa alla letteratura, ma solo a quella cattiva. Per il resto preferisco la peste, decisamente.

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