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Letteratura e Verità (o almeno “Scienza”)

Un attentissimo lettore mi scrive in forma privata:

«Riflettendo sugli autori inattuali o potenzialmente tali, mi sono chiesto quale avrebbe potuto essere il rapporto fra David Foster Wallace ed il movimento neoreazionario/dark enlightenment/alt-right degli ultimi quattro anni, e sarei curioso di avere una tua opinione pure su questo, anche perché ho sempre fatto fatica ad inquadrare Wallace».

Non vorrei parlare di cose che non conosco (anche se poi è quello che faccio regolarmente), dunque confesso di non aver letto una sola pagina di questo David Foster Wallace, nonostante mi fossi ripromesso di farlo almeno dal 12 settembre 2008. Tuttavia dato che ultimamente me lo ritrovo sempre più spesso oltraggiato dalla “lesbicona in salamoia” di turno, che a seconda dei casi lo vede troppo “bianco”, “maschio” o “etero” (è pure finito in una surreale lista di autori incel nelle vesti di “santo patrono delle stronzate maschili”), penso sia giunto il momento di leggerlo, solo per il gusto di triggerare chicchessia (come ci siamo ridotti a parlare). Ed è in effetti quello che sto facendo: il post in questione rappresenta dunque solo un “avviso” al super-lettore di cui sopra. Ho iniziato a leggere Infinite Jest, tutto qua.

Per quanto riguarda invece il rapporto tra letteratura e verità (o almeno “scienza”), assecondando lo spirito hegeliano che da sempre inconsciamente ci contraddistingue, dovremmo ammetter che infine, con la morte della letteratura stessa, è possibile fare di qualsiasi romanzo un oggetto analizzabile dal punto di vista dell’antropologia e financo dell’etnologia. Tale espediente ci consentirebbe almeno di farne il rifugio estremo della misoginia, una volta che gli studi di psicologia ai quali ci abbeveriamo (quelli che dicono sostanzialmente che le donne sono delle “puttane senza cuore” [cold-hearted bitches]), saranno debitamente “purgati” da qualsiasi ricerca che metta in cattiva luce il comportamento del “sesso debole”.

Peraltro di recente da queste parti si è discusso, non senza orgoglio (per questioni di “classe”, non individuali), della riscoperta da parte della comunità incel dell’opera di uno sconosciuto (tanto in patria quanto altrove) scrittore egiziano, anch’egli morto suicida (a volte le coincidenze) nel 1979, il quale ha lasciato due volumi dal titolo Non nascere brutto e Tutti mi sono nemici, pura poesia da celibe involontario.

Gli incel scoprono uno sconosciuto scrittore egiziano morto suicida

Anche a questo mi riferivo, parlando di riduzione etnologica della letteratura: selezionare solo i romanzi in cui compare un maschio bianco che odia le donne facendo passare qualsiasi questione stilistica o estetica in secondo piano (con la consapevolezza che gli autori migliori resteranno in eterno i dead white males).

Da tale prospettiva, l’obiettivo attuale è quello di far diventare Cesare Pavese un meme per la comunità incel, favorendo persino eventuali tentativi di shitposting:

A parte gli scherzi, vorremmo concludere con un granello di sale citando il primo articolo su letteratura ed etnografia che ci è capitato sottomano, dedicato a Italo Calvino (L. Alunni, Se una notte d’inverno un etnografo, “Doppiozero”, 5 ottobre 2015): dalla raccolta di Fiabe italiane, basata su fonti “di seconda mano” («Non sono andato di persona a farmi raccontare le storie dalle vecchiette»), con un occhio a Giuseppe Cocchiara e uno a Vladimir Propp, al romanzo incompiuto La decapitazione dei capi (inquietante fantasia sull’antropologia politica batailliana) a Sotto il sole giaguaro («dove il cannibalismo [è] uno dei temi dominanti»), si può apprezzare questo intreccio/impasto/contaminazione tra “generi”, che si risolse coscienziosamente tutto nella letteratura.

A differenza, invece, della forma che prese in un autore come Pavese, nel quale l’etnologia “a tinte viola” (colore della collana einaudiana curata con De Martino) si trasformò in un grottesco esperimento ritualistico su se stesso. E anche, in maniera meno eclatante, in Claude Lévi-Strauss, che per quanto paradossale possa sembrare, col passare degli anni si è dimostrato molto più “politicizzabile” del comunista Calvino (nonché del comunista Pavese, che peraltro oggi tutti vorrebbero “fascista”).

Non che l’autore de Il barone rampante mantenne sempre lucidità sull’argomento, come dimostrano incauti giudizi sul cannibalismo («[se ne] può parlare solo col rispetto dovuto a riti religiosi d’altre culture, che non vanno giudicati col nostro limitato metro eurocentrico»), ma perlomeno restò calato nel suo ruolo, senza abbandonare il perimetro della cultura in nome di altre suggestioni o “tonici potenti”.

Tutto ciò per dire che anche noi maschi bianchi morti (in senso metaforico) non dobbiamo temere di restare incastrati nel letterario, poiché al giorno d’oggi (intendo da quando hanno voluto ridurci a collettività di oppressori e assassini) non ci sono concesse molte altre patrie. Dunque si formi pure un’identità sui romanzi trasformati in materiale etnologico, al di qua di ogni romanticismo o donchisciottismo: semplicemente una storia del maschio come creatura umana e non come feticcio o case study.

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