L’Impero Romano avrebbe potuto avere una propria “Rivoluzione Industriale”?

Un argomento che appassiona gli storici (non solo improvvisati) internettiana è l’eventualità che Roma avrebbe potuto a un certo momento sviluppare un sistema industriale avanzato.

Nel documentario (per YouTube) How close was Rome to an Industrial Revolution? di Invicta, che vanta l’adozione di un modello interpretativo dinamico, sipongono al confronto le condizioni dell’Impero Romano (I-II secolo d.C.) con quelle dell’Inghilterra pre-industriale (XVIII-XIX secolo), arrivando paradossalmente a una conclusione piuttosto “statica”: nell’Antica Roma non si sarebbe potuta verificare una rivoluzione industriale perché… non si è verificata.

In particolare l’Autore, che comunque si rifà a una bibliografia non trascurabile, è piuttosto impietoso nel comparare l’Antica Roma all’Inghilterra ottocentesca, che a suo parere fra i tanti pregi poteva vantare un sistema politico stabile (monarchia costituzionale), di contro al caos imperiale interno (guerre civili, assassini di imperatori e conflitti per la successione) ed esterno (mantenimento della Pax Romana); tecniche di coltivazione e allevamento avanzate, in grado di fornire manodopera alla nascente industria (mentre la produzione romana era rivolta verso l’autosufficienza e non contemplava prospettive di aumento della resa); la capacità di sfruttare le risorse naturali (mentre l’Impero non riuscì a convertire il carbone in fonte di energia).

Ci sono poi altre considerazioni che lasciano il tempo che trovano, come quelle sul “metodo scientifico” (approccio empirico e sperimentale dei barbari pitti vs. mentalità più “pratica” che scientifica dei romani), e altre affermazioni ingenerose sulle possibilità di sfruttamento intensivo dell’energia idraulica, a fronte di una infrastruttura riconosciuta tuttavia come “notevole” (acquedotti e rotte marittime).

Dunque, nonostante le capacità ingegneristiche e organizzative dei Romani, che l’Autore -bontà sua- riconosce, a suo parere sarebbero mancate comunque le condizioni economiche, sociali, politiche e scientifiche indispensabili all’innesco di un’industrializzazione dell’Impero. Più possibilità, da questa prospettiva, l’economista Mark Koyama, che prendendo come spunto un romanzo dell’australiana Helen Dale, Kingdom of the Wicked (dove si ritrae il processo a Gesù Cristo in una Roma tecnologicamente avanzata), prova a ragionare in modo più aperto sulla possibilità di un’Industria Romana nel suo articolo Could Rome Have Had an Industrial Revolution? (2017).

Nella “ucronia” della Dale, il Mediterraneo diventa un hub tecnologico avanzato grazie al genio di Archimede, il quale, sopravvissuto all’assedio di Siracusa, si mette al servizio dell’Impero soprattutto in ambito militare, per poi consentire indirettamente a ogni cittadino romano di avvalersi dei progressi in questo campo nella vita quotidiana, della quale a un certo punto le macchine diventano una parte integrante proprio come ai nostri giorni.

Per decenni, secondo Koyama, gli storici hanno tracciato un abisso culturale ed economico tra antichità e modernità (egli cita in particolare autori come Moses Finlay e Karl Polanyi), ma allo stato attuale gli studiosi stanno finalmente valutando nuove ipotesi: come esempio egli porta Il destino di Roma di Kyle Harper, nel quale questo professore americano descrive un’economia romana capace di sostenere sia l’espansione demografica sia l’aumento del reddito pro capite, sfatando il mito che la disuguaglianza impedisse alle classi medie (o anche i ceti più bassi) di poter accedere a un’ampia gamma di “beni di consumo” premoderni, un’interpretazione audace ma avallata dalle più recenti scoperte archeologiche riguardanti testimonianze di fitte reti commerciali e di una presenza diffusa di beni di consumo prodotti industrialmente in tutto l’impero.

Koyama cita direttamente K. Harper (le cui pagine riporto dalla traduzione Einaudi):

«La pace, la legge e le infrastrutture dei trasporti favorivano ovunque la penetrazione capillare dei mercati. La rimozione della pirateria dal Mediterraneo verso la fine della repubblica poté forse essere il prerequisito fondamentale per la deflagrazione commerciale a cui assistettero i romani; il rischio dei pirati, in fondo, fu spesso il principale ostacolo agli scambi via mare. L’ombrello della legge romana riduceva ulteriormente i costi delle transazioni. L’applicazione rigorosa dei diritti di proprietà e un regime valutario condiviso incoraggiavano gli imprenditori e i mercanti. Solo ultimamente ci è stato possibile apprezzare gli straordinari progressi del sistema creditizio romano. Le banche e le reti romane di credito commerciale offrivano livelli di intermediazione finanziaria rimasti ineguagliati fino ai momenti più progressisti dell’economia del XVII-XVIII secolo. Il credito è il lubrificante del commercio, e nell’impero romano i suoi ingranaggi funzionavano a meraviglia».

Ritornando ancora al romanzo della Dale, l’Autore partendo dalla tesi consolidata che la schiavitù fosse una barriera insormontabile all’adozione di tecnologie che facessero risparmiare sulla manodopera, ricorda che proprio in risposta a tale presupposto la scrittrice australiana colloca la “sua” Rivoluzione industriale romana all’inizio e alla metà del II secolo a.C., prima dell’afflusso su larga scala di schiavi dalle conquiste di Grecia, Cartagine e Gallia. L’ipotesi è suggestiva, anche se pare che la signora la arricchisca di dettagli imbarazzanti (come la costruzione di una “clinica per l’aborto” a Gerusalemme, il Dea Tacita Centre, assaltata dagli zeloti…).

In conclusione Koyama, seppur partendo dalle suggestioni di un “fogliettone”, riesce a fornire qualche base scientifica in grado di giustificare la sua posizione, scettica ma possibilista, di una Rivoluzione Industriale Romana, i cui presupposti (giusto per citarne qualcuno) potevano essere lo spazio mercantile immenso e interconnesso grazie alle sue infrastrutture, un sistema giuridico all’avanguardia rispetto all’epoca e un certo grado di innovazione tecnologica (come l’uso dei mulini ad acqua, conoscenze metallurgiche avanzate e capacità di produrre vetro e cemento).

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2 thoughts on “L’Impero Romano avrebbe potuto avere una propria “Rivoluzione Industriale”?

  1. Tecnologicamente gli antichi erano dei baluba rispetto anche solo agli uomini del tardo medioevo. Guarda la metallurgia dei gladi, che praticamente erano ghisa con la punta rinforzata, o il famoso meccanismo di Antikytera, tanto elaborato da un punto di vista astronomico quanto arretrato da un punto di vista meccanico (osserva la forma dei denti delle ruote dentate e confrontali con quelli del Seicento). Pensa poi alla mancanza di staffe per i cavalieri, o al modo di aggiogare gli animali da tiro, ecc. Sembrano inezie, ma sommate alla nota abbondanza di manodopera servile e al tracollo culturale dopo la distruzione dell’ellenismo (vedi “La rivoluzione dimenticata” di Lucio Russo), sono più che sufficienti per giustificare un mancato sviluppo industriale.

  2. Se l’abbondanza di manodopera servile è connessa alla mancanza di sviluppo tecnologico, l’importazione di masse di stranieri nei paesi occidentali può essere individuato con buona ragione tra i motivi principali dell’involuzione dell’Occidente?

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