Forse i tempi stanno davvero cambiando se la notizia che l’Italia nel primo trimestre del 2024 ha raggiunto il Giappone nella classifica internazionale dell’export non è stata spacciata come “miracolo economico”, specialmente nel momento in cui un governo soi-disant “sovranista” dovrebbe vantare proprio questo tipo di successi (posto che il centro-destra è talmente sterile e inane che non riesce a esercitare il benché minimo controllo sull’informazione e al contempo si fa pure accusare di “censura fascista” ecc… cornuti e mazziati come sempre).
In particolare ho notato che persino i pasdaran del mercantilismo, quelli che smantellerebbero i cimiteri italiani per vendere le lapidi in marmo alla Cina, non sono riusciti a indossare la faccia del Wojak sorridente sul loro volto rigato dalle lacrime. Ancor più interessante è che neanche la cricca dei post-nazionalisti, quelli che interpretano qualsiasi avvenimento politico-economico europeo come l’ennesimo gol segnato dall’Italia alla Germania nel 1970, nel 1982 o nel 2006, se la sono sentita di presentare il dato come ennesima dimostrazione di forza italica prima della spallata finale al sistema eurocratico.
La verità è che, nelle condizioni attuali, qualsiasi successo nell’export intrattiene un rapporto ormai inversamente proporzionale rispetto al benessere di una nazione. La morale della favola è infatti piuttosto semplice: a causa dei nostri stipendi da fame, noi produciamo manufatti di alta qualità a un prezzo svalutato che comunque non potremmo permetterci di pagare.
Del resto, anche se ci trovassimo nella migliore delle situazioni possibili, l’aver accettato il volume delle esportazioni come criterio esclusivo per regolare le politiche economiche nazionali comporta una vulnerabilità insuperabile rispetto alle variazioni internazionali: non è un caso che l’estemporaneo “primato” italiano sia dovuto da una parte a un calo “fisiologico” del Giappone e dell’altra a una timida stabilizzazione dei prezzi dell’energia (ma basterebbe un’altra crisi del gas a riportarci in deficit come nel 2022).
L’idolatria dell’export è un vero e proprio mitologema (non uso parole a caso) del neoliberismo, che ha più a che fare con le spoliazioni di un conquistatore o con la vendita dei denti d’oro al monte dei pegni, che non con lo scambio di beni e la fratellanza universale: perciò le nazioni si stanno impoverendo e le società collassano solo per “mettersi in vetrina”.
Si tratta questa di un’ideologia dai caratteri anti-umani (e anticristici, sempre per non usare parole a caso): pensiamo per esempio al fatto che ad aver gettato il Bel Paese nel grande tritacarne mercantilista senza usare nemmeno i guanti bianchi è stato un certo Mario Monti, il quale aveva l’esplicito compito di “distruggere la domanda interna” da una prospettiva europeista e riformista, nonché democratica e liberale.
Mi ricordo quando, tra le tante novità decretate dal tecnocrate, venne concessa alla grande distribuzione la possibilità, divenuta automaticamente obbligo, di tenere aperto la domenica: all’epoca ero ancora un osservatore piuttosto ingenuo, però mi domandai subito a quale scopo introdurre una norma di tal fatta nel momento in cui si dovevano scoraggiare i consumi.
Non che ora sia migliorato in termini di consapevolezza e saggezza, tuttavia col senno di poi mi rendo conto che tali provvedimenti propagandistici (e controproducenti per gli scopi che si volevano ottenere) avevano da una parte l’obiettivo di introiettare nell’inconscio collettivo l’idea che si dovesse lavorare sempre, senza sosta, indipendentemente dal senso del proprio impiego; e dall’altra di sfoggiare ugualmente un maquillage liberale rifiutando di prendere un solo provvedimento che facesse sentire gli italiani parte di una collettività (a parte i vani proclami sulla “durezza del vivere” e sullo “stringere la cinghia”).
Capisco forse di aver allargato troppo il discorso, ma questa è a mio parere la spiegazione più valida del perché le politiche liberali/liberiste/neoliberiste (stessa merda) fanno il deserto e lo chiamano “benessere”, senza poter vantare successi economici che non siano di facciata. Sempre da tale prospettiva, mi preme di fare un esempio riguardante i cari veneti, un popolo al quale mi sento molto legato pur essendo storicamente, culturalmente ed etnicamente estraneo al mio. Essi sono noti per essere i più grandi bevitori d’Italia, eppure le statistiche parlano chiaro: il veneto medio consuma meno del 20% del vino prodotto localmente, rispetto invece alle cifre di sardi e abruzzesi, orgogliosamente autarchici in fatto di ebbrezza.
D’accordo, è una correlazione spuria, ma se nemmeno i veneti si possono “permettere” (e non in senso economico) di bere i propri vini per la mania di doverli vendere a tutto il mondo, allora ciò vuol dire che esistono problemi ben più lancinanti che non il costo della vita e lo sfruttamento della manodopera: qui c’è in gioco la distorsione totale del rapporto che un uomo, e un popolo, ha con la propria terra. Un appiattimento feroce e annichilente che, al di là di ogni romanticismo, si riflette nello svilimento delle arti, del paesaggio e della natura stessa degli uomini, i quali letteralmente barattano l’eredità dei padri, o patriarchi, per un piatto di lenticchie.
La concentrazione crescente di capitale implica grandi esportazioni da centri che si cannibalizzeranno l’un l’altro abbattendo il margine di contribuzione fino a diversi servire di schiavi a vitto e alloggio, cosa per ora illegale. Conviene perché hai un “vantaggio comparato”, cioè un costo-opportunità più basso dato da persone disposte a lavorare di più per meno. In questo senso per i mercantilisti la disoccupazione strutturale è più preziosa dell’oro, che loro malgrado non possono usare anche come operaio.
Il valore è nel lavoro e in una nazione etnicamente solidale ed omogenea. Ma l’ultimo che ha provato a spingere questa verità si è sparato con una banale pistola, per quanto fieramente made in Germany.
mi impressiona che il tuo articolo esca lo stesso giorno in cui Progetto Razzia spiega benissimo la morte dell’opinione pubblica, con motivazioni analoghe alle tue.
Bisogna prendere atto che il livello di distorsione del dibattito pubblico (e delle vite! e delle menti!) è ormai fuori scala: anche chi ha intuito qualcosa di quello che sta succedendo manca completamente degli strumenti interpretativi…
In che senso ?