Non sono, devo confessarvelo, un grande ammiratore di Howard Phillips Lovecraft. Fatico persino ad apprezzare il modo in cui una certa “destra” ha provato a forgiare tramite la sua opera nuovi simboli identitari in grado di eludere la censura in ambito “culturale”; sono però le modalità stesse del suo “recupero” a riflettere una subalternità della “reazione” rispetto al “progresso”.
Prendiamo The shadow over Innsmouth del 1936 (cito l’ultima edizione Mondadori appena pubblicata, L’ombra su Innsmouth): questa è una delle tante opere sulle quali è stato imbastita la favola del Lovecraft razzista (praticamente basta che un essere umano si incroci con una creatura aliena/non-umana per far entrare uno dei suoi volumi nell’ormai lunghissima fedina di “suprematista bianco”).
Tuttavia, il progressismo dominante, alle prese con la sua ombra “regressista”, non si rende nemmeno conto della ghettizzazione indiretta a cui si sta condannando, al cospetto di quelle che una volta sarebbero state ridotte a “provocazioni”. Per giunta, in un contesto in cui la mania woke e la cancel culture (le definizione sono già abusate, ma proprio di questa roba stiamo parlando) sono espressioni dello stesso “sistema” che ha fatto di Lovecraft uno scrittore di successo, al di là delle sue obiettive capacità.
Lovecraft non è mai stato un autore de destra, un controrivoluzionario o che altro: se oggi conosciamo il suo nome e i suoi libri vengono ristampati periodicamente con le copertine più attraenti, è solo perché egli è stato un utile strumento per “decostruire” l’immaginario dell’occidentale medio, rappresentando il contraltare del “sogno americano” trasmutato in veri e propri incubi.
Il mitologo cthulhuiano non è d’altronde mai stato snobbato da chi oggi lo taccia di razzismo, anzi: il suo nome è entrato più e più volte nei vari canoni “anti-“ ispirando varie “narrazioni”, per l’appunto, proto-woke (il lato oscuro dell’America, il lato oscuro dell’Occidente, il lato oscuro del colonialismo, il lato oscuro della mascolinità, il lato oscuro della borghesia, il lato oscuro dell’Occidente, il lato oscuro della democrazia, il lato oscuro dell’Io, il lato oscuro dell’uomo, il lato oscuro di tutto eccetera).
Per questo fa specie che uno dei suoi critici più accreditati, Robert M. Price (nella sua prefazione a un’antologia del 1998, The Innsmouth Cycle) abbia potuto trasformare L’ombra su Innsmouth nel “Manifesto della Razza” dell’Autore, in particolare abusando di un riferimento al romanzo Fishhead (1913) di Irvin S. Cobb (mai tradotto in italiano), dal quale Lovecrat ha apertamente tratto l’ispirazione per la figura dell’ibrido uomo-pesce, a parere di Price avvantaggiandosi dell’allegoria per indicare il suo “disgusto per il matrimonio interrazziale” e per “l’inquinamento del pool genetico”.
Una distorsione completa dell’intento di Lovecraft, che nel saggio L’orrore soprannaturale in letteratura parla di “affinità innaturali tra un idiota ibrido e lo strano pesce di un lago isolato”, senza alcun riferimento a caratteristiche etniche o razziali (se non nell’espressione hybrid idiot, totalmente neutrale all’epoca), peraltro nel pieno rispetto delle intenzioni di Cobb, che aveva appunto immaginato il suo personaggio “Testa-di-Pesce” sì come un meticcio (nato da un nero e un’indiana), ma la cui caratteristica sconvolgente non riguardava affatto il colore della pelle, ma i segni “non umani” lasciati dallo shock subito dalla madre incinta alla vista di una spaventosa creatura marina.
In nessuno passaggio di Fishhead si può evincere dunque che i discendenti di relazioni interrazziali siano intrinsecamente “mostruosi”, anzi, piuttosto l’intento di Irvin S. Cobb sembra proprio quello di stilare un apologo anti-razzista, considerando che alla fine il povero uomo-pesce viene ucciso da dei sudisti ubriaconi (poor whites), come nella migliore tradizione “anti-bianca” americana.
Qualcuno si stupirà, ma queste stesse osservazioni potrebbero benissimo valere per L’ombra su Innsmouth: altro che razzismo, qui è la “diversità” a essere celebrata seppur in modo grottesco e perturbante. Gli ottusi interpreti odierni si attaccano, per esempio, alle parole del bigliettaio che, conversando col protagonista (uno studente in visita nel New England), sparla di Innsmouth biasimando tuttavia il “pregiudizio razziale”, seppur non in maniera così netta come si aspetterebbe un moderno (perché è assolutamente corretto interpretare un romanzo ambientato e scritto quasi cento anni fa con i criteri attuali):
«È pur vero che dietro l’acrimonia della gente c’è un mero pregiudizio razziale. Non che possa biasimarli… Li odio anch’io, quelli là, e non mi interessa proprio niente di mettere piede in casa loro. D’altronde saprà bene anche lei, a giudicare dal suo accento dell’Ovest, che le navi del nostro New England attraccavano nei porti più assurdi d’Africa e Asia e dei mari del Sud, e via dicendo, per poi tornare con a bordo strambi prototipi umani. Con tutta probabilità avrà sentito parlare di quel tipo di Salem che è tornato con una moglie cinese e forse saprà anche che nei paraggi di Cape Cod vivono ancora diversi figiani».
Questo sono però le affermazioni di uno dei tanti personaggi e non necessariamente corrispondono al pensiero dell’Autore (allo stato attuale è doveroso ricordare anche questo!). Immediatamente dopo, peraltro, il protagonista, quasi a simboleggiare da parte di Lovecrat l’ansia di non apparire razzista, smentisce l’idea che si tratti di un problema “etnico” descrivendo l’autista dell’autobus nativo di Innsmouth:
«Aveva un che di untuoso che accrebbe il mio disprezzo. Forse a tempo perso lavorava o bighellonava al molo, tra i banchi del pesce, perché si portava appresso proprio quell’odore caratteristico. Non riuscivo nemmeno a immaginare quale genere di sangue barbaro scorresse in lui. Di certo le sue peculiarità fisiche non apparivano asiatiche né polinesiane, né levantine o negroidi, eppure capivo per quale motivo gli si riconoscesse un certo tocco esotico. Dal canto mio avrei pensato a una degenerazione biologica, più che a una provenienza esotica».
Per chi non avesse letto il racconto di Lovecraft (che è bello in se stesso al di là di qualsiasi spoiler, dunque state tranquilli), il cosiddetto Innsmouth look (la “maschera di Innsmouth”), cioè il tipico aspetto inquietante di questi campagnoli, dipende dall’ibridazione dei primi abitanti del villaggio con delle creature marine, gli Abissali, “un’ispecie di ranepesci o pescirane“, come sostiene Zadok Allen, l’ubriacone del villaggio che sembra l’unico realmente “umano” in città (e che i traduttori della Mondadori fanno parlare in romanesco…).
Addirittura il protagonista stesso scopre alla fine di essere un discendente degli Abissali, in un plot twist che negli anni ’30 del secolo scorso poteva stupire proprio nella misura in cui voleva esprimere l’angoscia sulla doppiezza dell’animo umano, l’incertezza della propria identità e il timore per l’alterità, o altre bazzecole che sono diventate dogmi dell’anti-conformismo di massa, tipo “il nemico è dentro noi stessi”, “i veri mostri siamo noi” eccetera eccetera.
Altro che razzismo, dunque. Semmai, considerando anche gli equivoci imbarazzanti, se non l’ipocrisia sfacciata e cinica, di cui si nutrono le nuove narrazioni “anti-“, è probabile invece che l’umanità, almeno quella occidentale, stia procedendo in un istupidimento sempre più acuto (e per certi versi artefatto e imposto), in un vero scenario lovecraftiano causato proprio dalle fantasie malate dello scrittore di Providence, che, è triste dirlo, oggi forse scriverebbe romanzi per polemizzare contro il se stesso di un secolo fa.
Premesso che è piuttosto inutile valutare uno scrittore in base a considerazioni di questo tipo, prova a leggere “la strada”, https://www.hplovecraft.com/writings/texts/fiction/s.aspx
(Quando ancora Lovecraft era relegato alle edizioni Newton & Compton con i mostri in copertina, parliamo di un’altra epoca, mi piaceva “… Kadath”, perché aveva una sua poesia.)
Difficile cogliere in Lovecrafr qualche riferimento antimoderno o razzista (che poi credo fossero due prospettive, negli anni dell’autore, agli antipodi) come fanno oggi i metallari diventati grandi, diventati accademici e che hanno rinchiuso il matto di Providence in asettiche edizioni “da premio Nobel” – difficile coglierci gran che se non proiettando le notizie biografiche sull’opera in modo francamente banalissimo. (Sicuramente Houellebecq farà un’operazione diversa, nel suo saggio, ma perché Houellebecq è Houellebecq, può vantare idee particolarissime sulla letteratura di genere, il punk, e via dicendo.) Comunque, ecco, la base di tutto, secondo me, è una lettura di Lovecraft devitalizzata, intellettualizzata a forza, che perde qualsiasi fascinazione ingenua e che risulta, pertanto, falsissima: i feuilleton, come quelli di cui stiamo parlando, sono lontanissimi dall’immaginario degli studiosi contemporanei, praticamente parliamo di rovine di un mondo estraneo: il nostro orizzonte è il romanzetto a tesi a misura di longform.
Io a Innsmouth ci vivo. Ormai credo che ogni città di mare italiana a sud della linea gotica lo sia diventata, più o meno. Detto ciò, si è vero fare di HPL un vessillifero di un pro o contro qualcosa non ha molto senso. Era un reazionario, un antimoderno. Io l’ho conosciuto quando un amico al liceo mi prestò “I Mostri all’angolo della strada”, curata da F&L, ancora Omnibus Mondadori. Poi ne fecero un Oscar qualche anno dopo. Ricordo diversi pomeriggi di controra passati a leggere i suoi racconti e ricordo i fumetti di Zio Tibia, sempre Oscar Mondadori con alcune storie tratte dal signore di Providence. Ultimamente, Beniamino Di Dario gli ha dedicato una lettera nel suo meraviglioso “Del Declinare Del Mondo”: Lettera IV, Epopea di Rane. Ad H.P. Lovecraft, Monolito sul Mondo, Ora dei Cani Ululanti, 11 febbraio 1934. Libro consigliatissimo. Salute.