Ma quanti olocausti, ho perso il conto!

A metà degli anni ’90 del secolo scorso uscì negli Stati Uniti una dirompente raccolta di saggi, Is the Holocaust Unique? Perspectives on Comparative Genocide, curata peraltro dallo studioso di origine ebraica Alan Rosenbaum. Opera lievemente revisionista (anche di una certa caratura, bisogna riconoscerlo) che non ha però suscitato chissà quale “sclero” da parte del mainstream per il semplice motivo che la sua prospettiva era sinistroide. E ovviamente, nonostante le varie edizioni americane, non è mai stata approntata una traduzione in italiano perché… beh, ci si può arrivare.

Non che mi vada di fare il solito discorso “bu uh quanti genocidi nella storia, Israello assassino” (che è poi la tesi del volume), però se questa masnada di progressisti mi sostiene la tesi che in fondo l’unicità dell’olocausto è solo una manifestazione del messianismo fondamentalista giudaico, allora mi sa che mi faccio crescere i rasta e divento una zekka (si fa per celia).

A parte gli scherzi, i nomi che compaiono nel volume hanno tutti un pedigree democratico-terzomondista di tutto rispetto: c’è persino il patrono intellettuale degli zingari, Ian Francis Hancock, un britannico rubicondo ben inserito nel mondo accademico americano e discendente dai cosiddetti Romanichal, i “rom londinesi” che sarebbero piuttosto “elitari” (per dire, non è gente che compare nei video sui pickpockets nella Tube), il quale ci dà dentro con le accuse di “razzismo” all’establishment ebraico, ricordando peraltro episodi di questo tipo:

«Durante una conferenza tenuta in un centro di cultura ebraica [negli Stati Uniti], sono stato interrotto da una signora che è balzata in piedi e mi ha chiesto veementemente perché stessi paragonando il Porrajmos alla Shoah, dal momento che gli ebrei avevano dato tanto al mondo e gli zingari invece erano solo dei parassiti e dei ladri. In un’altra occasione un signore tra il pubblico si è alzato e ha dichiarato che non avrebbe mai comprato un libro sull’Olocausto scritto da uno zingaro».

Ecco perché non è stato tradotto. Nonostante l’intervento dello zingaro British sia il più controverso, il tenore degli altri non è poi così diverso, nonostante nella maggior parte dei casi non siano stati affidati a storici dalla marcata affiliazione “etnica” (afroamericani, africani, ucraini, indios, armeni ecc…) ma perlopiù adaccademici di origine ebraica, che ovviamente tendono a smorzare i toni riguardo ai paragoni col genocidio armeno, l’holodomor o la tratta degli schiavi.

D’altro canto, stona con molte affermazioni contenute nelle prime edizioni l’aggiunta di un capitolo speciale sul “negazionismo iraniano” che è una noiosissima reprimenda contro la “conferenza negazionista” di Teheran indetta da Ahmadinejad alla fine del 2006, la quale viene collegata al “programma nucleare” persiano che minaccia l’esistenza stessa di Israele (vabbè).

Più interessanti, per la vivacità del dibattito, le considerazioni per esempio di David E. Stannard:

«Preoccupa questa piccola industria di agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’arguzia degli zeloti. Perché questo è ciò che sono: zeloti che credono letteralmente che loro e i loro correligionari siano, nelle parole del Deuteronomio (7,6), “un popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra”».

E ancora Hancock (decisamente il più combattivo):

«L’unicità dell’olocausto ebraico deve essere difesa a tutti i costi perché giustifica l’esistenza dello Stato ebraico, Israele. Nel viale principale del campus dell’Università del Texas ad Austin, dove insegno, si erge una struttura alta quasi tre metri, eretta dalla Jewish Students’ Association come monumento a Israele. È ricoperta di fotografie e articoli di giornale, e proprio al centro c’è un cartello giallo con le parole “Israele: sei milioni, non dimenticare mai”. Non si tratta di un argomento nuovo; in effetti mi è stato suggerito da più di un membro dell’U.S. Holocaust Memorial Council, e Zygmunt Bauman [in Modernità e Olocausto] fa esplicito riferimento al modo in cui “Lo stato ebraico tentò di sfruttare il ricordo della tragedia come certificazione della propria legittimità politica, come salvacondotto per le proprie scelte passate e future, e soprattutto come pagamento anticipato delle ingiustizie eventualmente commesse“. Si tratta però di un argomento pretestuoso. Israele, uno stato ebraico, dovrebbe esistere in qualsiasi circostanza; parlando come membro di un popolo senza patria, comprendo profondamente i sentimenti associati al (non) possesso di una patria. Riconoscere che gli zingari hanno ricevuto lo stesso trattamento degli ebrei […] non può togliere nulla all’enormità della tragedia ebraica o sminuire il diritto di Israele a esistere. Mi vengono in mente le parole di Dermot Mulroney in Where the Day Takes You: “Quello che è mio è mio, e se lo condivido con te, diventa meno mio!” Non riesco a immaginare che il resto del mondo interpreterebbe la rivendicazione dei rom in questo modo o la considererebbe una minaccia al diritto all’esistenza di uno Stato ebraico».

Lasciando però da parte le chiacchiere (che come quelle appena riportate, dimostrano tutta la loro ingenuità), nella prospettiva degli eventi storici succeduti alla Seconda guerra mondiale, si può giungere alla conclusione che questa “unicità” della Shoah è esclusivamente legata all’esistenza di Israele.

Nessun altro popolo “vittima” (in senso lato) del nazi-fascismo ha ottenuto una patria col consenso dei vincitori; e al contempo, se avesse avuto un pezzo di terra, probabilmente avrebbe dovuto rinunciare alla condizione di “vittima più vittima” degli altri (sempre secondo il milieu da cui muovono gli storici di cui sopra). Gli zingari, per esempio, non hanno mai rivendicato un loro territorio, a parte i campi, le case occupate abusivamente e la metro di Milano; così come gli afro-americani ad onta di tutte le istanze (perlopiù irrealizzabili) presentate dal “separatismo” nero, non possono concepire “riserve” se non quelle orribili periferie de facto afro-centrizzate (dove peraltro essi non vorrebbero vivere).

Altri popoli, come palestinesi o curdi, si trovano poi sulla soglia dell’ingresso del gran consesso delle nazioni e qualora ce la facessero, inevitabilmente consumerebbero in pochi anni il proprio deposito vittimario immagazzinato in decenni di “nomadismo” coatto (che per i sostenitori attuali ha invece presupposti ideologici netti e solidi).

Tale dinamica mi sembra talmente ovvia che forse è superfluo discuterne, in specie nel momento in cui la fatidica “Giornata della Memoria” è perennemente monopolizzata dalle vittime ebraiche, anche qualora nei congressi internazionali dell’ONU si invitino rappresentanti di altre minoranze meno “uniche” degli altri.

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