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Mai dire Calasso (recensione a “L’Innominabile Attuale”)

È la prima volta che mi capita di comprare un libro di Calasso appena uscito: di solito me ne sto prudentemente alla larga, con la consapevolezza che come sempre tutti ne parleranno in termini entusiastici senza nemmeno averlo aperto. Tuttavia l’altro giorno, in libreria, qualcosa (?) mi ha spinto ad accaparrarmi una copia de L’innominabile attuale: al principio credo sia stato il numero di pagine, finalmente contenuto (segno di una tardiva evoluzione verso la sintesi); poi, tuffandomi nella lettura, ho capito che il motivo era un altro, più enigmatico (adelphico…!). In pratica è come se Calasso avesse finalmente scritto un libro leggibile, addirittura recependo per vie misteriose le mie critiche al suo ultimo impresentabile volume Il cacciatore celeste (un compendio di tutto ciò che di negativo si può dire sulla sua intera produzione). Non credo che il Venerato Maestro abbia scoperto il mio blog, anche perché è piuttosto diffidente nei confronti di internet (infatti pure qui non perde occasione per osservare piccato che la possibilità di «poter produrre, senza alcun vincolo, parole e immagini virtualmente divulgabili ovunque» ha generato «un diffuso delirio di onnipotenza», una mitomania di massa); penso si tratti di un incontro a livello più “sottile”, epperò così virile ed essoterico (con due s, SS), da escludere ogni possibilità di hypnerotofallomachiao singolar tenzone fra protuberanze mentali. Unicuique suum, insomma: c’è chi preferisce provvedere a se stesso con un sofisticato sistema di specchi e leve, e chi invece si lascia autosodomizzare dalle corna della sua stessa castità.

In ogni caso si parla della stessa cosa, cioè di che senso abbia per una comunità umana dotarsi di una classe intellettuale: al di là della propaganda (i “deliri” con cui assicurare la coesione sociale), anche la ricerca della verità sembra detenere, nonostante tutto, un ruolo fondamentale. Non “verità” intesa come Pravda, ma –appunto– come Innominabile Attuale, ciò che rimane celato dalle “connessioni espressive” intercorrenti fra struttura e sovrastruttura. E quasi a dimostrare una calata nella feccia di Romolo, o una pure e semplice discesa dal piedistallo, Calasso lascia da parte la gematria benjaminiana per esprimersi direttamente come un Houellebecq qualsiasi: «Nello stadio ultimo della sua formazione, il terrorismo islamico coincide con la diffusione della pornografia in rete, negli anni Novanta».

Beh, sì, forse… però, tutto sommato, anche no.
L’idea che tutti gli elementi concorrenti a formare il genius saeculi si muovano in perfetta coordinazione non è che una pareidolia, e forse l’unica espressione verace dello “spirito dei tempi” è proprio l’eclettismo à la Benjamin, diventato quel cibo che solum è mio in un’era affamata di correlazioni spurie: quindi, anche secondo Calasso, terrorismo, pornografia e turismo rappresenterebbero «mondi paralleli dove vigono regole simili». Ecco, queste sono cose che in effetti avrei preferito non leggere: poiché, se le “bozze” del volume promettevano bene (quel sorprendente editoriale sul “Corriere” di inizio anno in cui si facevano “nomi e cognomi”), la riduzione imposta dal classico format calassiano finisce per riportare le intuizioni migliori nell’alveo dell’amoralismo “sublime” (cifra dell’intera produzione adelphiana), che è ovviamente sintomo e non cura del nostro problema. Restano, è vero, rimasugli di “verità”, illuminazioni che resistono per un istante all’entropia:

«La potenza che muove il terrorismo e lo rende assillante non è religiosa, né politica, né economica, né rivendicativa. È il caso. […] Occorreva che la società giungesse a sentirsi autosufficiente e sovrana perché il caso si presentasse come suo principale antagonista e persecutore» (p. 16).

«[L’]Homo saecularis parla con molte voci, spesso divergenti. Quella che più si fa notare è progressista e umanitaria. Applica precetti di eredità cristiana, ammorbiditi e edulcorati. Soluzione tiepida e pavida, si combina, in senso inverso, con il movimento in corso nella Chiesa stessa, che cerca sempre più di assimilarsi a un ente assistenziale. Il risultato è che i secolaristi parlano con una compunzione da ecclesiastici e gli ecclesiastici ambiscono a farsi passare da professori di sociologia» (p. 49).

Troppa grazia, San Satiro! Più di così credo Calasso non possa fare. D’altronde il “senso” del volume si riversa interamente nella seconda parte (“La società viennese del gas”), una sorta di griglia interpretativa delle considerazioni antecedenti che si trasforma in un sfoggio di erudizione finalmente “fine a se stesso”. Lo sprovveduto direbbe: storytelling (a questo punto sarebbe meglio chiamarlo storytelling management, ché il Nostro c’ha la sua bella fabbrichetta editoriale e ti vuol far capire che con Adelphi si è stampato tutto quel che voleva, da Alfred Kubin a Carl Schmitt, a Schmitt che legge Kubin); no, non è “narrazione”, ma mitopoiesi (altro che “turisti e terroristi”: “terremoto e terrorismo” è la vera analogia, da Lisbona 1755 a Parigi 2015). E i miti che scaturiscono dalla letteratura non sono posticci né contraffatti, poiché, come stabilisce il precetto di Robert Walser (forse l’unico mysterion di Calasso): «Chi legge, nel momento in cui legge, non fa danno».
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