Mal di Seder: perché la Pasqua ebraica e quella cristiana non sono la stessa cosa

In questi anni, se non decenni, di “dialogo interreligioso” a senso unico da parte cattolica, è divenuto di uso comune considerare la Pasqua ebraica come pressoché equivalente a quella cristiana, tanto è vero che non è una novità l’organizzazione da parte di alcune parrocchie di Sèder “gentili”, i quali, più che servire all’evangelizzazione da una prospettiva storico-culturale (se consideriamo l’Ultima Cena come una forma di pasto pasquale ebraico) sembrano votati a diluire le differenze, e altresì le somiglianze, in una poltiglia insapore e incolore.

Negli ultimi tempi (o tempi ultimi) c’è stato tuttavia un episodio che ha smosso, seppur in maniera lievissima, le acque: mi riferisco a una delle tante gaffe dell’ex premier Giuseppe Conte, che in occasione della Pasqua del 2020 affermò che “Pasqua significa, lo sanno bene i Cristiani, passaggio. È il passaggio e anche il riscatto dalla schiavitù all’Egitto” (sic).

Quando c’è da correggere un politico persino gli atei militanti sono pronti a improvvisarsi chierichetti: in tal caso però non mi pare ci sia stata, anche da parte ecclesiastica, attenzione non tanto nel sottolineare l’errore, quanto nel comprenderne la natura (e faccio notare, en passant, come la solitamente suscettibilissima comunità ebraica italiana l’abbia addirittura presa “con un sorriso”).

Come è possibile che un persona comunque colta, nonché un foggiano nato nel 1964, il quale si dichiara apertamente cattolico (persino praticante), cada in certi  errori? Senza dilungarsi in supposizioni che lasciano il tempo che trovano, è difficile non pensare che la tendenza “giudaizzante” seguita al Concilio Vaticano II non abbia esercitato un qualche ruolo: intendo dire che non è impossibile che “Giuseppi” sia stato indotto sin dal catechismo a credere che i cristiani celebrino la loro Pasqua in “onore” dei fratelli maggiori, come “memoria” della liberazione dell’Egitto, e che solo successivamente tale ricordo sia stato “spiritualizzato” dai cristiani come passaggio dal peccato alla salvezza.

Posto che l’Ultima Cena di Gesù fu a tutti gli effetti un Seder di Pesach e posto che il significato di “passaggio” sia stato assunto sin dai primi cristiani (appunto nel senso di passaggio dalle cose di questo mondo alle cose di Dio), la differenza insormontabile tra le due cene è che una celebra Gesù Cristo come Messia, l’altra no. Come si può intuire, è complicato affrontare certi discorsi senza porre continuamente l’accenno sull’irriducibile diversità tra chi ha accettato Cristo e chi lo ha rifiutato: sono cose delle quali, del resto, è sconvenevole parlare a tavola (e che comunque la comunità ebraica non accoglierebbe “con un sorriso”). Però va sempre tenuto a mente il punto.

Soffermiamoci allora su un “dettaglio” specifico, che ha sì interesse per teologi ed esegeti ma che anche il semplice fedele non dovrebbe ignorare: i calici consumati durante entrambi i rituali. In occasione del suo ultimo Seder ebraico, ovvero la sua prima “Cena” cristiana, Gesù ha rispettato la tradizione dei calici di vino: ha consumato il calice inaugurale come benedizione (detto infatti qiddush), poi quello della “proclamazione” (haggadah), che adempie al comando del Signore di celebrare la Pasqua come “memoriale” (Es 12,14) e, all’inizio della cena vera e propria, il terzo calice (della “benedizione”, in ebraico berakah). Cristo avrebbe dovuto consumare anche un quarto calice alla fine del pasto rituale, ma procrastinò tale atto fino alla morte in croce, accettando il famigerato “aceto” della spugna per comunicare ai discepoli come la Pasqua si fosse realmente conclusa con il suo sacrificio.

Queste cose purtroppo non si imparano più a catechismo (anche se il Catechismo stesso indica che andrebbe insegnato ai bambini che “Gesù ha dato alla Pasqua ebraica il suo significato definitivo”), tanto che abbiamo dovuto farcele ricordare da due studiosi americani, Scott Hahn e Brant Pitre, dei quali due importanti volumi, Il quarto calice e I segreti dell’ultima Cena sono stati appena pubblicati -con merito- rispettivamente da Cantagalli e Il Timone. Consiglio la lettura per comprendere con criterio, al di là di ogni frustra retorica “dialogante”, perché la Pasqua cristiana dà il “significato definitivo” alla Pesach.

Una Pesach che per giunta -è doveroso ricordarlo- dopo l’avvento di Cristo è stata modificata con l’introduzione di un quinto calice, quello del profeta Elia (Eliyahu HaNavi), che nessuno deve bere perché il vero Messia “ha ancora da venire”. Dal momento che l’aggiunta di questo nuovo elemento del rituale è basata su una delle tante controverse interpretazioni del Talmud, la scelta di porre un quinto calice sulla tavola è opzionale. Ricordiamo, senza intento provocatorio, che sempre secondo fonti talmudiche, la prima cosa che dovrebbe fare il profeta Elia una volta ritornato è risolvere i dilemmi sulla legge ebraica che continuano a confondere i rabbini. Suona un po’ come il proverbiale cane che si morde la coda, ma prima o poi servirà affrontare certe questioni almeno con onestà intellettuale, per esempio ponendosi domande su quanti falsi messia gli ebrei hanno servito nel corso della storia solo per aver rifiutato Cristo. Ma, come si diceva, queste sono gli altrettanti proverbiali argomenti di cui “a tavola non si parla”. Dunque Buona Pasqua a tutti.

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