Esiste un personaggio dei Promessi Sposi perennemente trascurato sia dalla critica tradizionale che dall’industria culturale (per non dire dei “venticinque lettori”): mi riferisco alla “bella vedova”, la “ricca mercantessa” che compare accanto a Lucia nel capitolo XXXVI.
«Lucia andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto al lettuccio; e, appoggiata a quello la testa, continuò a piangere dirottamente. La donna, che fin allora era stata a occhi e orecchi aperti, senza fiatare, domandò cosa fosse quell’apparizione, quella contesa, questo pianto. Ma forse il lettore domanda dal canto suo chi fosse costei; e, per soddisfarlo, non ci vorranno, nè anche qui, troppe parole.
Era un’agiata mercantessa, di forse trent’anni. Nello spazio di pochi giorni, s’era visto morire in casa il marito e tutti i figliuoli: di lì a poco, venutale la peste anche a lei, era stata trasportata al lazzeretto, e messa in quella capannuccia, nel tempo che Lucia, dopo aver superata, senza avvedersene, la furia del male, e cambiate, ugualmente senza avvedersene, più compagne, cominciava a riaversi, e a tornare in sè; chè, fin dal principio della malattia, trovandosi ancora in casa di don Ferrante, era rimasta come insensata. […] La mercantessa che, avendo lasciata in custodia d’un suo fratello commissario della Sanità, la casa e il fondaco e la cassa, tutto ben fornito, era per trovarsi sola e trista padrona di molto più di quel che le bisognasse per viver comodamente, voleva tener Lucia con sè, come una figliuola o una sorella.
[…] “Questa buona signora mi fa lei intanto da madre: noi due usciremo di qui insieme, e poi essa penserà a tutto.”
“Dio la benedica,” disse il frate, accostandosi al lettuccio.
“La ringrazio anch’io,” disse la vedova, “della consolazione che ha data a queste povere creature; sebbene io avessi fatto conto di tenerla sempre con me, questa cara Lucia. Ma la terrò intanto; l’accompagnerò io al suo paese, la consegnerò a sua madre; e, soggiunse poi sottovoce, – voglio farle io il corredo. N’ho troppa della roba; e di quelli che dovevan goderla con me, non ho più nessuno!”».
Due capitoli dopo la ritroviamo al cospetto di don Abbondio, incredibilmente in vena di allusioni e frecciatine brillanti (è qui che pronuncia la celebre battuta su Perpetua che “ha fatto uno sproposito a morire ora”):
«“I curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fin del mondo. Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell’illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un giorno volessero dell’eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali. Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete cos’ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la dispensa per l’altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica ne ho già…. uno…. due…. tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora. E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol essere: non ne deve rimanere uno scompagnato. Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; chè questo era il momento che trovava l’avventore anche lei. E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso.”
“Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata, cinquanta denunzie.”
“Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de’ mosconi?”
“No, no; io non ci penso, nè ci voglio pensare.”
“Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese….”
“Uh! ha voglia di scherzare, lei,” disse questa».
La mercantessa ispira al curato
“una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir tutto il rimanente di que’ discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo più d’una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi ancora un pochino sull’uscio di strada, sempre a parlar di bubbole“.
Se questa vedova trentenne è riuscita a mandare in crisi persino don Abbondio, figuriamoci i critici. Qualcuno del resto si è reso conto della sua enigmaticità nell’economia del romanzo:
«Si sarebbe tentati d’accusare il Manzoni persino d’insensibilità, a veder questo personaggio, a distanza di poche settimane dalla perdita del marito e di “tutti i figliuoli”, bersaglio degli inopportuni lazzi di don Abbondio» (Giorgio Petrocchi, Manzoni. Letterature e vita, 1971, p. 178).
I più scettici non possono far altro che collocarla in una dimensione ultra-cristiana, nella quale la fede ispira un vitalismo così estremo da trasformare un lutto immediatamente non elaborato in accidia. E c’è infine chi chiama in causa direttamente la “magia”: «La mercantessa assomiglia a una piccola fata benefica» (G. Speraz, Le donne dei promessi Sposi).
L’unico ad aver dato al personaggio l’importanza che merita, seppure all’interno della sua controversa chiave di lettura (che vuole i Promessi Sposi un “romanzo satanico”), è Aldo Spranzi, il quale ne discute approfonditamente nella sua Anticritica dei Promessi Sposi (Egea, Milano, 1995), che citeremo di seguito come fonte principale (procuratevene una copia finché è disponibile perché è forse uno dei pochi libri da “isola deserta” che potrei consigliare, almeno a un lettore italiano).
La ricca mercantessa sembra a tutti gli effetti una Dea Bianca, una di quelle creature misteriose, dalla natura “eterea e onirica”, che vengono a turbare il buon ordine patriarcale e cristiano. È fortissimo il contrasto, in questa donna, fra la tragedia vissuta e l’irrefrenabile joie de vivre:
«La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta immaginare d’un umore così socievole e gioviale» (cap. XXXVIII).
Secondo Spranzi, per contemplare la bella vedova bisogna abbandonare “l’ottica della psicologia cristiana”:
«In lei [vediamo] la fedele sottomissione alla legge della violenza, l’adesione senza remore alla religione nella quale vivono immersi l’Innominato, don Abbondio, Lucia e tutti gli altri. In un personaggio religioso si trasforma, la mercantessa. La sua religione è intensa, piena, pura, senza ipocriti riferimenti alla religione, inesistente, dell’amore, quella cristiana. […] La vitalità gioiosa di questa donna viene dalla carne, non ci sono inferenze spirituali. […] Colpisce soprattutto la mancanza totale di pensosità. Un attimo di pensosità, una sfumatura di pensosità, piccola, piccolissima, non importa, ci aspettavamo. L’indole, è chiaro, non c’entra: questa totale mancanza di pensosità è un dato religioso, dimostra la totale assenza di religiosità cristiana» (pp. 1086-87).
Senza mai nominarla, e anche eludendo il quadro interpretativo in cui ne colloca il ritratto, Spranzi evoca sottilmente tutte le caratteristiche di una Dea Bianca “incarnata”:
«Quella frenesia di vivere, oltre che passare sui cadaveri del proprio marito e dei propri figli, uccide la prospettiva di una vita futura, che è il fulcro dell’esperienza religiosa cristiana. La bella mercantessa testimonia con i suoi comportamenti che la vita futura non esiste, che solo questa fugace esperienza terrena sta a disposizione dell’uomo […] I suoi figli? Non li rivedrà più: perciò li ha dimenticati» (p. 1088).
La prospettiva della donna è “totalmente, integralmente pagana“; di questa religiosità violenta “la bella mercantessa è una perfetta immagine vivente“:
«È il Caos, il dio della violenza, che pretende che i pochi privilegiati che […] ha risparmiato e messo al riparo della violenza, vivano -senza un pensiero per le vittime, e senza un pensiero per l’altra vita che non esiste- un’esistenza che si consuma con la velocità di un tramonto.
[…] Al Caos la bella e ricca mercantessa ubbidisce docilmente, senza tentennamenti, perché non ci sono in lei interferenze proveniente dal mondo dell’amore, di un amore trascendente, né conosce l’ipocrisia. Una testimonianza terribile, al di là delle leggiadre apparenze. Chi vuol fuggire con questo essere straordinario, sappia che potrà vivere con lei solo accettando senza condizioni la sua “religione”» (p. 1089).
Per il critico è il romanzo stesso di Manzoni a incagliarsi in questo abisso di amoralità e vitalismo niente affatto “cristiano”, anzi sua perfetta antitesi giammai colta dalla critica tradizionale:
«La gioia di don Abbondio, e quella della vedova, diventano in tal modo l’adempimento di un dovere. Così si risolvono i problemi nella critica manzoniana. Di questo passo, si potrebbe sostenere che l’amico che Renzo incontra in paese, che non sa dimenticare moglie e figli portati via dalla peste, è un peccatore, incapace di apprezzare il dono divino della vita» (p. 1087).
Fuori dai risvolti “letterari”, la questione per noi è se sia possibile resistere alla Dea Bianca nella vita reale: evocare il tristo affaire Pavese sarebbe fin troppo scontato, nonostante l’exitus di ciò che sembrava una suggestione d’erudito colloca la vicenda meno nel campo del letterario che in quello psicologico e religioso, per non dire esistenziale tout court.
La Dea Bianca si affaccia nelle nostre vite in diverse incarnazioni e l’unica cosa che possiamo fare è “buon viso a cattivo gioco”, con l’assoluta consapevolezza che da un momento all’altro la “roba” se la “godrà” con qualcun altro.
Può sembrare ridicolo ammantare di tinte religiose certe infatuazioni “provinciali”, da “sartine”, da “piccolo-borghesi” (aggiungete le ingiurie che desiderate): eppure il dramma metafisico cova anche nelle menti più illuminate e progressiste, emergendo prepotentemente nell’allarmismo sui cosiddetti “femminicidi” e nello stillicidio gazzettistico sull’onnipresente patriarcato.
Non scadiamo però dal letterario alla cronaca nera. Il lettore probabilmente non coglie nemmeno le ripercussioni nella vita quotidiana di quanto vado scrivendo, perché forse si fida talmente tanto della biologia da non poter afferrarne l’essenza nel momento in cui si fa cultura. Tuttavia, individuare la Dea Bianca nella natura femminile, nell’ipergamia, nell’amoralità profonda dell’approccio della donna alle relazioni sentimentali, è davvero chiedere troppo al Manzoni: è innegabile però che essa faccia comunque capolino.
Pensate dunque che se una figura del genere è in grado di perturbare il romanzo più cristiano mai scritto, che scempio potrebbe fare della vita di un maschio inesperto e poco aduso a quel “tonico potente” che è l’amore-passione.