A inizio di quest’anno Franco Cardini ha recensito su “Avvenire” (Quale mondo sarebbe se a vincere fosse stata Cleopatra?, 24/01/2024) il nuovo libro dello storico Giusto Traina dedicato alla guerra civile romana, identificata tout court come la prima guerra mondiale della storia, pubblicato per la prima volta nel 2022 in francese sotto il titolo La guerre mondiale des Romains.
Pur considerando Cardini un affabulatore, come probabilmente qualsiasi storico che ottenga un qualche successo nella propria epoca, mi aveva incuriosito un passaggio nel quale sosteneva testualmente che l’Autore avrebbe lasciato intendere che un’eventuale “vittoria” di Cleopatra avrebbe avuto un esito positivo per l’umanità a livello globale, in quanto avrebbe ridotto il potere di Roma e rafforzato, per bilanciamento, quello di Alessandria:
«Se la grande, affascinante, intelligentissima e coltissima regina greco-egizia o meglio forse egizio-ellenistica (lei, protagonista sostanziale dei fatti ben più del suo secondo marito) avesse avuto la meglio – sarebbe potuto accadere; e magari Traina lascia intendere che non sarebbe stato male – la storia del mondo non sarebbe stata la medesima: Roma ne sarebbe stata forse un po’ meno protagonista, ma Alessandria sarebbe stata ancora più grande e gloriosa e duratura»
Come dicevo, il metro di Cardini è quello della fabulazione ed è con quello che evidentemente giudica l’operato dei colleghi: perciò sono andato a leggermi La prima guerra mondiale della storia. Dall’assassinio di Cesare al suicidio di Antonio e Cleopatra (44-30 a.C.) del professor Traina per rintracciare almeno una frase che giustificasse l’interpretazione del medievista fiorentino.
Come prevedibile, per svolgere il compito mi ci è voluto del tempo (ricordarsi di comprare il libro quando si passa in un bookshop, ché ormai di “librerie” degne di tal nome sono rimaste quelle dell’usato non affiliate però alla nota catena; aspettare magari che goda di uno sconto collettivo del catalogo Laterza del 20%; poi portarselo a casa, riporlo in un angolo aspettando che si impolveri per bene prima di ricordarsi di leggerlo… nove mesi così passano in un istante), ma alla fine credo di aver individuato qualche passaggio chiave che lascino intendere una “tendenza” (absit iniura verbis) del Traina a plasmare la scientia tramite la fabula.
Il primo è una considerazione ovvia (che poi approfondirò) sulle modalità in cui la propaganda augustea ha accentuato, se non inventato di sana piana, il cosiddetto “orientalismo” di Antonio per presentare alle masse l’antagonista come traditore degli ideali romani, ovvero già all’epoca (lato sensu, s’intende)“occidentali”.
Traina di suo ci mette un certo astio nei confronti di Ottaviano, accusandolo di non aver concesso ad Antonio alcun onore, come aveva fatto Cesare con Pompeo, e facendolo passare per un “rinnegato” votato alla causa dell’Oriente in ragione della sua “passione per Cleopatra”: da tale prospettiva, persino la concessione di una sepoltura “coniugale” con l’amata risulta dettata alla “persuasione occulta” più che alla pietas.
Il secondo passo è invece più esplicito e riguarda la necessità da parte di Roma di stabilire un rapporto “meno arrogante” con Alessandria:
«Non si devono […] sottovalutare le ragioni politiche della relazione tra Antonio e Cleopatra. Era necessario stabilire un rapporto meno unilaterale, e soprattutto meno arrogante, con la potenza economica dell’Egitto e la sua influente sovrana, sottolineando questa polarità tra Roma e Alessandro che aveva caratterizzato tutto il periodo ellenistico. Cesare aveva perfettamente compreso questa esigenza. Ora Antonio riprendeva il suo approccio, interrotto dalla guerra civile, e raccoglieva l’eredità politica del dittatore (e, in Asia Minore, quella di Pompeo)».
Infine, i pensieri conclusivi ricapitolano la tesi che tra le righe lo studioso sostiene sin dall’inizio, che poi Cardini esplicita con la sua idea di una globalizzazione “alternativa” che avrebbe potuto influenzare nei millenni anche l’assetto delle “superpotenze egemoni contemporanee”:
«Con la conquista dell’Egitto e la sparizione dell’ultimo regno ellenistico, il Mediterraneo divenne un “lago romano”: più tardi, gli arabi parleranno di Baḥr al-Rūm (“mare dei romani”). Alessandria non perse tuttavia la sua importanza commerciale, ma con la vittoria di “tutta l’Italia” l’economia-mondo aveva ormai stabilito il suo centro a Roma. Per i boni cives, i cittadini “buoni” ovvero rispettabili, l’Italia e Roma erano il centro del mondo. Nel 30, dopo la sua vittoria finale contro Antonio, Ottaviano fece coniare delle monete con la legenda Asia recepta, “l’Asia è stata conquistata”, indicando qui con Asia generalmente l’Oriente, cioè la parte usurpata da Antonio. Per i greci e gli orientali, Antonio e Ottaviano erano considerati come due dominatori appartenenti alla stessa potenza straniera. Ufficialmente, a Roma, la battaglia di Azio era una guerra esterna contro l’Egitto: insomma, un misto di guerra esterna e guerra civile. Come gli eventi succedutisi alle Idi di Marzo, che nell’insieme costituivano una serie di campagne e offensive che non è del tutto scorretto e anacronistico presentare come una vera e propria guerra su scala mondiale. In definitiva, la prima guerra mondiale della storia».
Ecco, visto che qui si parla per l’appunto solo di affabulazioni, che utilizzano come “fonte primaria” le proprie suggestioni (non solo ideologiche), mi sento pienamente legittimato a dire la mia.
Il comportamento tenuto da Antonio durante la guerra civile romana è del resto un tema suggestivo che mi appassiona sin da adolescente, dopo che una superficiale lettura del classico shakesperiano mi diede l’impressione di una assoluta identificazione tra innamoramento e svirilizzazione. L’ipotesi conclusiva alla quale sono giunto è che il triumviro, emblema del bell’omm per antonomasia (“pezzo di Marcantonio”), sia a tutti gli effetti morto di figa.
Nonostante l’uso di espressioni triviali che mi contraddistingue, il tema è tutt’altro che pedestre: semmai, i dubbi riguardanti la Orient-politik del Nostro, ovvero se sia stata dettata da una delirante infatuazione per Cleopatra oppure da un geniale disegno geopolitico volto a penetrare nelle élite levantine in veste di ierofania dionisiaca, rappresenta ancora una vexata quaestio non solo per intellettuali e storici, ma anche per filologi e latinisti (e Giusto Traina obiettivamente non lo interpreta bene, derubricando qualsiasi perplessità sul contegno antoniano a “propaganda augustea”).
L’unica cosa certa è che la sconfitta, in base all’eterno principio del vae victis, lo ha consegnato alla storia come pusillanime, ubriacone e degenerato. Cassio Dione nella Historia Romana riporta il discorso con cui Augusto arringò le truppe alla vigilia dello scontro decisivo ad Azio:
«Chi non si lamenterebbe di vedere i soldati romani fare da guardie del corpo della loro regina? Chi non gemerebbe nel sentire che cavalieri e senatori romani la adorano come eunuchi? Chi non piangerebbe al cospetto di Antonio stesso, l’uomo due volte console, impegnato con me nella gestione degli affari pubblici, a cui erano affidate così tante città, così tante legioni – nel vedere che quest’uomo ha ormai abbandonato i costumi dei suoi avi, ha adottato tutte le usanze straniere e barbare, disonorando noi, la legge, gli dèi patri, rendendo omaggio a quella fanciulla come se fosse Iside o Selene, e prendendo per sé il titolo di Osiride o Dioniso, e ancora regalandole intere isole e territori, come se fosse padrone di tutta la terra e tutto il mare?».
Si può notare che, a livello di mos maiorum e forse anche di “inconscio collettivo”, quello che identifichiamo come “principio apollineo” tende sempre a prevalere sul “dionisiaco” in maniera piuttosto agevole. Non è solo propaganda: dal punto di vista culturale, Antonio aveva già perso la sua battaglia in partenza, poiché neppure col più fantasmagorico sfoggio di ornamenti bacchici e il più variopinto dei cortei orgiastici sarebbe riuscito a eludere l’accusa di locura de amor (proprio come in una cattiva telenovela).
Come dicevo, è difficile comprendere, anche col senno di poi, se il triumviro stesse costruendo una macchina mitologica in grado di romanizzare l’intero ecumene (come quando celebrò ad Alessandria, ma oltraggiando Roma, il trionfo sull’Armenia, fregiandosi dell’appellativo di “Bacco”) oppure se il tutto si riducesse a una mitizzazione delle proprie vicende personali.
Penso che da tale prospettiva l’errore fatale di Antonio sia stato metapolitico, oltre che metastorico: tentare nell’impresa di conciliare vizi privati e pubbliche virtù in veste di vittima sacrificale.
Come sostiene, in una rilettura ardita, uno studioso afroamericano (Arthur L. Little Jr., Shakespeare Jungle Fever, 2000),
«non avendo impersonato la mascolinità e le virtù romane, l’unico mezzo con cui Antonio poté inserirsi nella narrativa imperiale di Roma e posizionarsi alla nascita dell’impero fu quello di interpretare l’archetipo femminile della vergine sacrificale; avendo fallito nella virtus, nell’identificazione con Enea, cerca quindi di emulare Didone».
Non è solo l’identificazione con Enea che fallisce: altri numi tutelari furono Eracle e soprattutto Alessandro Magno, rievocato come via maestra dell’assimilazione tra Romanitas e Oriente. Se tuttavia Antonio non avesse vissuto la schiavitù d’amore in senso totalmente dionisiaco, forse la sua vicenda si sarebbe conclusa in modo differente: d’altro canto, i motivi da egli valorizzati nella colonizzazione culturale delle clientele “di frontiera” transitarono quasi identici nella Imitatio Alexandri augustea.
La posizione interpretativa, come si può evincere dalla mia analisi tra il serio e il faceto, difficilmente prescinde dalla caratura di chi la assume indipendentemente dalle fonti consultate: certo, è brutto ridurre il tutto a una fabulation anche nobilitata dall’elaborazione bergsoniana, ma è soltanto di questo che stiamo parlando.
Non per fare pettegolezzi, ma si capisce sia perché un Cardini o un Traina indulgano tanto nella If-History senza tema di discredito: da una parte interpretano perfettamente il gusto dell’epoca, che è femmineo, lascivo, orientaleggiante a diversi livelli, in sostanza “anti-romano”; dall’altra le loro biografie parlano da sé.
Conosco abbastanza bene l’opera di Cardini per permettermi di dire che il suo “sogno” è quello di una mondializzazione alternativa che assuma come modello le reducciones gesuite piuttosto che le “lobbies internazionali”: un mito come un altro, che si illude di un utopico “equilibrio dei poteri” proiettati nei millenni addietro in grado di addolcire il panorama contemporaneo. Più che contraddire la “propaganda augustea”, tale approccio la conferma, nella misura in cui si assume la stessa mentalità dei “nemici di Roma” proprio giustificando una riduzione dell’influenza imperiale in nome di una passione privata.
Per quanto riguarda Traina, non voglio insinuare alcunché sulle sue vicende intellettuali (anche perché a differenza di Cardini non ha pubblicato autobiografie a raffica), ma obiettivamente la sua impostazione, seppur certificata dal brand Sorbona, è la più sputtanata a livello politico, se in un saggio come I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie (Laterza, 2023), arriva a sostenere che in fondo i veri “barbari” non sono quelli che tirano giù le statue, e benché meno gli immigrati che vengono in Italia per “pisciare” su di essa (anche fuor di metafora), ma i suoi colleghi che non accettano il fatto che Greci e Romani giungano a rappresentare solo una parentesi in una “storia globale” dove il loro apporto è diluito in favore di qualsiasi altro popolo (numidi, fenici, cartaginesi, ittiti).
Per Traina il verso senso della “cultura umanistica” è quello di ridursi perennemente a un contenitore vuoto da riempire con i “valori democratici” di apertura, dialogo e tolleranza. Da tale prospettiva è difficile non valutare la sua valorizzazione della folie à deux antoniana come espressione di un delirio ideologico proiettato nella dimensione classica.
Peraltro “Traina” era il cognome di uno dei miei bulli alle medie, dunque è probabile che la provenienza da un contesto in cui la criminalità organizzata rimanda nebulosamente alla romanitas e il suo unico antidoto può essere rintracciato in un’ambiguità “istituzionale”, dove un certo tipo di “cultura” (woke?) potrebbe salvare dalla tentazione della mafia, potrebbe aver influito sulle sue elucubrazioni. Tuttavia, tale azzardatissima affermazione può essere sorta anche solo dal fatto che Traina mi ricorda qualcuno che mi ha picchiato da piccolo…
Cardini è quel fesso che per 50anni ha creduto alla favola della buona unione europea ideata dagli Spinelli. Poi per sua ammissione, pochi anni fa, si è accorto che era tutta una menzogna. Boomer, o sono allocchi o sono in malafede, che generazione disgraziata
Cardini è un pollone gonfiato che adora circondarsi di galline e gallinelli: e scrive male. A quanto pare tiene in casa una scimitarra. Molto bello sarebbe se Houellebecq gli suonasse il citofono proponendogli, per puro spirito di creazione letteraria, di farne un uso sessuale. Una Sottomissione… attenuata dall’essere in un bel salotto!
A proposito di cardini migliori
https://youtu.be/95DbWV7wnxE?si=r4dWSdPIb7DwRy_E
Non so se questa è pignoleria, la mia, però, ho notato:
a) nell’articolo il seguente passaggio è impreciso: ” «Se la grande, affascinante, intelligentissima e coltissima regina greco-egizia o meglio forse egizio-ellenistica (lei, protagonista sostanziale dei fatti ben più del suo *SECONDO* marito) […] » . A rigor di termini, Marcantonio è stato almeno (se non altro formalmente) il QUARTO. A prescindere che (ma forse è una mia lacuna) non mi risulta che sia mai stata sposata, se non di fatto, con Cesare, durante la sua vita era stata sposata e poi ne era rimasta vedova, con ALMENO tre fratellastri . Matrimoni solo pro-forma? Può darsi. Nelle coppie tolemaiche, sposate (all’uso faraonico) tra parenti strettissimi quelle che davvero consumarono le nozze, furono talmente poche, che i contemporeani lo notavano. Le Regine accudivano e riconoscevano come propri i figli che i parenti-sposi avevano dalle schiave e, viceversa, i Re raramente (quanto meno in pubblico) si interessavano alla vera paternità dei figli partoriti dalle loro parenti-spose, anche se, ovviamente, a loro volta li riconoscevano come propri ;
b) stando a quanto ricordo da programmi TV di Augias e di Barbero, l’innamorata pazza era la nostra Faraona. Era lei che faceva a Marcantonio le scenatacce di gelosia; era lei che, quando litigavano faceva lo sciopero della fame. Era lei, che provocando il riso dei presenti e l’imbarazzo del diretto interessato, mandando a quel paese ogni etichetta, gli lavava e massaggiava i piedi in pubblico.
Non attinente con l’articolo.
Se un giorno ne hai il tempo e se è ti interessa l’argomento.
Prova a dedicare del tempo all’opera del Marchese de Sade.
Puoi farci un articolo sempre se ti va’.