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Marco Antonio: perdere un impero per la figa

Statuetta egizia di Cleopatra (Louvre)

Il comportamento tenuto da Antonio durante la guerra civile romana è un tema suggestivo che mi appassiona sin da adolescente, dopo che una superficiale lettura del classico shakesperiano mi diede l’impressione di una assoluta identificazione tra innamoramento e svirilizzazione. Si potrebbe dire che il triumviro, emblema del bell’omm per antonomasia (“pezzo di Marcantonio”), sia a tutti gli effetti morto di figa?

È una vexata quaestio non solo per intellettuali e storici, ma anche per filologi e latinisti, se la Orient-politik del Nostro sia stata dettata da una delirante infatuazione per Cleopatra, o da un geniale disegno geopolitico volto a penetrare nelle élite levantine in veste di ierofania dionisiaca.

L’unica cosa certa è che la sconfitta, in base all’eterno principio del vae victis, lo ha consegnato alla storia come pusillanime, ubriacone e degenerato. Cassio Dione nella Historia Romana riporta il discorso con cui Augusto arringò le truppe alla vigilia dello scontro decisivo di Azio:

“Chi non si lamenterebbe di vedere i soldati romani fare da guardie del corpo della loro regina? Chi non gemerebbe nel sentire che cavalieri e senatori romani la adorano come eunuchi? Chi non piangerebbe al cospetto di Antonio stesso, l’uomo due volte console, impegnato con me nella gestione degli affari pubblici, a cui erano affidate così tante città, così tante legioni – nel vedere che quest’uomo ha ormai abbandonato i costumi dei suoi avi, ha adottato tutte le usanze straniere e barbare, disonorando noi, la legge, gli dèi patri, rendendo omaggio a quella fanciulla come se fosse Iside o Selene, e prendendo per sé il titolo di Osiride o Dioniso, e ancora regalandole intere isole e territori, come se fosse padrone di tutta la terra e tutto il mare?”.

Si può notare che, a livello di mos maiorum e forse anche di “inconscio collettivo”, quello che identifichiamo come “principio apollineo” tende sempre a prevalere sul dionisiaco in maniera piuttosto agevole. Non è solo propaganda di guerra: dal punto di vista culturale, Antonio aveva già perso la sua battaglia in partenza, poiché neppure col più fantasmagorico sfoggio di ornamenti bacchici e il più variopinto dei cortei orgiastici sarebbe riuscito a eludere l’accusa di locura de amor (proprio come in una cattiva telenovela).

Come dicevamo, è difficile comprendere, anche col senno di poi, se il triumviro stesse costruendo una macchina mitologica in grado di romanizzare l’intero ecumene (come quando celebrò ad Alessandria, ma oltraggiando Roma, il trionfo sull’Armenia, fregiandosi dell’appellativo di “Bacco”) oppure se il tutto si riducesse a una mitizzazione delle proprie vicende personali.

Penso che da tale prospettiva l’errore fatale di Antonio sia stato metapolitico, oltre che metastorico: tentare nell’impresa di conciliare vizi privati e pubbliche virtù in veste di vittima sacrificale. Come sostiene in una rilettura ardita uno studioso afroamericano (Arthur L. Little Jr., Shakespeare Jungle Fever), “non avendo impersonato la mascolinità e le virtù romane, l’unico mezzo con cui Antonio può iscrivere se stesso nella narrativa imperiale di Roma e posizionarsi alla nascita dell’impero è quello di mettersi nell’archetipo femminile della vergine sacrificale; avendo fallito nella virtus, nell’identificazione con Enea, cerca quindi di emulare Didone”.

Non è solo l’identificazione con Enea che fallisce: altri numi tutelari furono Eracle e soprattutto Alessandro Magno, rievocato come via maestra dell’assimilazione tra romanitas e oriente. Se tuttavia Antonio non avesse vissuto la schiavitù d’amore in senso totalmente dionisiaco, forse la sua vicenda si sarebbe conclusa in modo differente: d’altro canto, i motivi da egli valorizzati nella colonizzazione culturale delle clientele “di frontiera” transitarono quasi identici nella Imitatio Alexandri augustea.

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