La tragicomica intervista al “Corriere” del 18 ottobre con cui il senatore Mario Monti annuncia il suo “No” al referendum sulla riforma costituzionale, unita a un secondo intervento in cui ribadisce i motivi per cui la riforma Renzi-Boschi non rientra nelle sue preferenze (Perché dico no a un salto nel buio, 30 ottobre), merita qualche commento.
Prima di tutto, coloro che solo in base alla preferenze di Monti decidessero di votare per il “Sì”, renderebbero più giustificabile (in quanto volontaria) la limitazione dei propri diritti democratici. Tutti gli altri, invece, potrebbe legittimamente domandarsi perché Monti intervenga nel dibattito in qualità di photobomber.
Le ipotesi sono diverse (lasciamo da parte le contestazioni dei lacchè che fanno la voce grossa col vecchio padrone per piaggeria verso il nuovo). Credo che uno dei più grossi problemi di Monti sia, proprio a livello politico, la megalomania. Nell’intervista infatti vanta come successo elettorale il risultato irrisorio del suo partitino («Alle elezioni del febbraio 2013 il movimento che si riconosceva nell’opera del mio “austero” governo ottenne, partendo da zero e senza un partito alle spalle, 3.005.000 voti, cioè più dei 2.269.000 voti che alle Europee del 2014 Renzi»).
Il livore di alcune risposte in parte si spiega quindi anche col fatto di esser stato ripreso pubblicamente da Renzi pochi mesi fa («Da lei non accetto lezioni»):
Tuttavia, al di là delle fisime personali e psicologiche, Monti pone un argomento concreto a sfavore della riforma: il fatto che essa non sia abbastanza anti-democratica. La riforma, per lui, lascia ancora qualche spiraglio ai «veri costi della politica», rappresentati dalla «provvidenza dello Stato» (pensioni e sanità, per capirci). L’ineffabile Monti però, su questo punto, dovrebbe essere più obiettivo: proprio lui che, come lo definisce il giornalista del “Corriere”, è «tuttora uno degli italiani più ascoltati nelle grandi capitali» (e dai grandi capitali), non può non vedere le “cose buone”, lo spirito schiettamente montiano, di questa riforma: l’Unione Europea entra di prepotenza in parecchi nuovi articoli e il Senato diventa un ente non-eletto che funge appunto da cinghia di trasmissione «tra l’Unione Europea, lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» (art. 55); il “pareggio di bilancio”, entrato in Costituzione proprio grazie a Nonno Monti (l’Italia è l’unico Paese al mondo ad averlo adottato nella forma interna, cioè come metodo di gestione dei rapporti tra Stato ed enti subordinati), si rafforza ulteriormente e acquista una dimensione quasi metafisica nel concetto di “Stabilità”, che diventa stabilità istituzionale, economica e politica (pure la finanziaria oggi è diventata “Legge di Stabilità”).
Nel secondo intervento, il Senatore rincara la dose, affermando che il governo, attraverso la finanziaria (ora ribattezzata “legge di stabilità”) abbia distribuito qualche mancetta per dare un po’ più di sostanza alla scelta del “Sì” (in effetti anche i sostenitori hanno bisogno di essere sostenuti): «Elevato è […] il costo che il Paese sta già pagando da qualche tempo, a carico del bilancio dello Stato, per la creazione di un clima di consenso inteso a favorire il Sì al referendum».
Come esempio “virtuoso”, il Senatore porta il governo Amato, che a suo parere non avrebbe «cercato il consenso a carico dello Stato». Chissà dov’era costui ai tempi della finanziaria del 2001 (quando c’era in ballo un altro referendum costituzionale), al cui confronto quella di Renzi assomiglia a una mensa per poveri.
Un ultimo motivo di dissenso da parte di Monti riguarda la struttura del nuovo Senato, che sarà composto da «esponenti politici dei Comuni e soprattutto delle Regioni, proprio di quel segmento della classe politica che negli anni scorsi, con le dovute eccezioni, non ha offerto l’esempio migliore di gestione corretta e avveduta della cosa pubblica».
Questo argomento risulterebbe valido se espresso da chiunque eccetto che da un personaggio giunto al potere proprio grazie alla delegittimazione della politica (e che per giunta ha “gestito la cosa pubblica” nelle modalità che conosciamo). Ricordiamo infatti come tutta la retorica anti-casta è servita a far disprezzare ai cittadini uno degli strumenti fondamentali per far valere i propri diritti: il voto.
È per giunta paradossale che Monti continui a parlare della democrazia con toni sprezzanti, come se non fosse stato proprio a gettarsi nella “bolgia elettorale” con la coalizione più sgangherata di sempre. A un certo punto anche il Senatore dovrebbe decidere cosa fare da grande: se vuole fare il tecnico, allora dovrebbe evitare di costruirsi i partitini; se invece vuol provare l’ebbrezza di essere eletto almeno una volta, allora deve smetterla di biasimare «le esigenze di creare consenso a destra e a manca» e capire che la politica si basa anche sul consenso. Sembra, in realtà, che Mario non sia l’unico a ignorare tale evenienza: anche a Bruxelles la democrazia non è tenuta in grande considerazione. Del resto, stiamo parlando di burocrati che si credono dei despoti illuminati. La loro allergia ai processi elettorali è così forte da impedirgli di capire che Renzi, con una lacrima di deficit, vuole solo acquisire consensi a una riforma che distruggerà la residua sovranità nazionale e impianterà in Italia una sorta di avamposto dell’eurocrazia quale è il nuovo Senato.
Se però nel caso di Monti si può chiamare in causa la megalomania di cui abbiamo detto, che lo costringe a rifiutare una riforma profondamente “montiana” solo perché essa non porta il suo nome, per tutti gli altri (Merkel, Juncker, Hollande, Moscovici ecc.), invece la spiegazione diventa più complessa: stanno forse anche loro partecipando alla sceneggiata, recitando la parte dei cattivi che però cedono di fronte alla dignità degli italiani che votano “Sì”?
La riforma in fondo non è soltanto montiana, ma è anche intrinsecamente “europeista”, poiché è ispirata dal principio “Votate ora per non farlo mai più” (ecco gli unici referendum che piacciono a Bruxelles).
A questo è ridotto il dibattito. Gli italiani, lo sappiamo, hanno il cuore grande e la memoria corta: probabilmente già non ricordano più chi sia Mario Monti e cosa abbia fatto al nostro Paese. Se venisse nuovamente chiamato a governare, lo applaudirebbero come la prima volta, al grido di “Facci presto, Professore”.
Se questa riforma non si può definire interamente “montiana”, è solo perché il Senatore è stato così ingenuo (sempre dal punto di vista politico, s’intende) da credere che gli italiani lo amassero fino al punto di votarlo. Se fosse rimasto al suo posto (come Ciampi), oggi sarebbe probabilmente Presidente della Repubblica e potrebbe apporre con serenità il suo brand alla riforma.D’altronde non è la prima volta che il Senatore si contraddice: stendiamo un velo pietoso su quanto disse ai tempi della svalutazione del ’92-’93. Vogliamo invece ricordarlo, e assieme a lui tutti gli altri, così: