Apprendo che è appena venuta a mancare alla veneranda età di 94 anni Helen Mary Warnock, baronessa britannica (e filosofia a tempo perso), che una decina di anni fa balzò agli onori delle cronache inglesi per alcune dichiarazioni (“immorali” e “barbare” secondo alcuni) favorevoli all’eutanasia di massa per i “dementi” al magazine della Chiesa Scozzese (Life & Work): Baroness Warnock: dementia sufferers may have a duty to die (Telegraph, 19/09/2008); Dementia patients’ “right-to-die” (BBC News, 19/09/2008); Old people with dementia have a duty to die (Daily Mail, 20/09/2008). Il succo della sua tesi è riassumibile in questo passaggio:
«Chi soffre di demenza sta approfittando della vita delle altre persone – della vita della sua stessa famiglia – e inoltre spreca le risorse del Servizio Sanitario Nazionale. […] Se qualcuno vuole assolutamente, disperatamente morire, perché è un peso per la sua famiglia o lo Stato, allora penso che dovremmo consentirgli di farlo».
In particolare i malati di Alzheimer, definiti demented, avrebbero il dovere (duty) di ricorrere all’eutanasia per non pesare sul bilancio e sulle famiglie. Riconosciamo alla baronessa se non altro il coraggio delle proprie opinioni, dal momento che dopo aver gettato il sasso non nascose la mano, ma anzi rincarò la dose con altre dichiarazioni ancor più nette (Doctors who refuse euthanasia “wicked”, expert claims, News Letter, 6 gennaio 2009):
«I medici che si rifiutano di aiutare i malati terminali a suicidarsi quando chiedono di morire sono “veramente malvagi”, dice un’importante esperta di etica in un dibattito a Belfast. Parlando a favore dell’eutanasia, la baronessa Mary Warnock ha anche affermato che medici e infermieri dovrebbero incoraggiare i malati terminali a decidere, mentre sono ancora relativamente sani, se essere aiutati a suicidarsi quando raggiungono uno stato più grave».
Al di là del cinismo, che nasconde anche una certa avventatezza direttamente proporzionale alla “chiarezza” (se lo scopo è quello di far risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale, si dovrebbe puntare più al “caso pietoso” che all’intimazione aperta), c’è da sottolineare il modo in cui avviene la spersonalizzazione del dolore, ovvero la statistica.
Ricordano infatti gli articoli citati che “quasi 700mila britannici soffrono di demenza e il numero è destinato a raddoppiare nei prossimo trent’anni”. Una massa di “dementi” pronta ad attentare alle finanze dello Stato: bisogna sbarazzarsene al più presto, ovviamente “con le buone”.
Il meccanismo della spersonalizzazione arriva a biforcarsi: da un lato, il malato (se cosciente) decide autonomamente di farsi uccidere per il bene delle finanze dello Stato, o per testimoniare una più alta concezione della vita e non pesare troppo sui parenti. Dall’altra, chi dovrebbe assistere il malato (non solo i parenti, ma anche i medici esentati dal giuramento di Ippocrate) si convince che l’assistenza stessa rappresenta un’offesa alla “vita piena”, nonché alle casse dello Stato.
Ricordiamo che idee simili vennero espresse “in tempi non sospetti” (per così dire) dal grand commis Jacques Attali, figura che peraltro partecipa dello stesso “potere opaco” della Baronessa, il quale in suo trascurato volume già profetizzava che:
«Alcune delle democrazie più avanzate sceglieranno di fare della morte un atto di libertà e di legalizzare l’eutanasia. Altre fisseranno dei limiti precisi alle proprie spese per la sanità, calcolando anche una spesa media di un “diritto alla vita” che ognuno potrà utilizzare a suo piacimento fino ad esaurimento. Si creerà, allora, un mercato dei “diritti di vita” supplementari in cui ognuno potrà vendere il proprio, in caso sia affetto da una malattia incurabile o sia troppo povero. Si arriverà, un giorno, persino a vendere dei “ticket di morte”, che daranno il diritto di scegliere, fra i vari tipi di fine possibili (eutanasia a scelta, morte a sorpresa nel sonno, morte suntuosa o tragica, suicidio su commissione, ecc…), la propria morte come la morte di un altro» (Dizionario del XXI secolo, Armando Editore, Roma, 1999, p. 103).
Ognuno ha naturalmente diritto a esprimere le proprie opinioni, ma anche a prendersi le responsabilità per esse, specialmente se occupa vita natural durante posizioni di potere in base a un mandato intellettuale, o addirittura “etico”, che gli conferisce un’enigmatica aura di intoccabilità. Detto questo, parce sepulto.