Mascherine, vaccini e tso: perché si parla di “covidioti”

Anche se gli italiani hanno memoria corta, qualcuno ricorderà quando, nelle prime settimane dell’emergenza pandemica, politici, tecnici e commissari spiegarono al popolino quanto le mascherine fossero inutili, additando come “irresponsabile” addirittura chi si azzardava ad acquistarle, poiché le stava indebitamente sottraendo al personale sanitario.

L’igienista ed ex attore Walter Ricciardi, nella sua prima dichiarazione da consulente del Ministero della Sanità il 25 febbraio, disse che “le mascherine chirurgiche ai sani non servono a niente perché il virus penetra attraverso la garza”; affermazione che ribadì ancora l’11 marzo, sempre in diretta televisiva. L’Huffington Post all’epoca definì l’ansia di indossare una mascherina come “una delle tante follie italiche”.

La ridda di super-funzionari ha poi fatto ammenda -si fa per dire-, da una parte affermando che all’epoca  l’utilità delle mascherine era stata negata all’unisono perché servivano in primis a medici e infermieri (classico caso in cui “la toppa è peggio del buco”: se hanno mentito una volta, seppur “a fin di bene” chi garantisce che non lo stiano facendo ancora?); e dall’altra invocando i nuovi parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che in realtà ha cambiato posizione diverse volte ed è infine giunta a stabilire che “il vasto uso di mascherine tra la popolazione non è sostenuto da nessuna prova e comporta una serie di incertezze e rischi”, tra i quali il falso senso di sicurezza che potrebbe infondere a chi le indossa.

Una indicazione importante, che sfortunatamente il famigerato “Comitato tecnico-scientifico” pare non aver recepito in modo adeguato, se dobbiamo tenere buone le dichiarazione al Corriere di uno dei suoi rappresentanti, il pediatra Alberto Villani:

“L’obbligo di indossare la mascherina all’aperto è un richiamo. Non importa se scientificamente ha senso oppure no. È un segnale di attenzione per noi stessi e per la comunità”.

Questa dunque la nuova linea: anche se le mascherine dovrebbero indossarle solo i contagiati sintomatici, il governo le impone a tutti gli italiani come “segnale di attenzione”, contravvenendo le indicazioni OMS che invece sconsiglia di focalizzare tutta l’attenzione su un dispositivo di protezione individuale appunto per non infondere nella popolazione un falso senso di sicurezza (“chi indossa sempre la mascherina non verrà mai contagiato”).

Se non altro, il dibattito sulle mascherine è ancora aperto e anche le eventuali conseguenze che il loro utilizzo prolungato potrebbero avere sono comunque infinitamente meno preoccupanti di quelle derivanti da un vaccino smerciato e inoculato in tutta fretta. Anche in questa occasione un altro super-consulente, il microbiologo Andrea Crisanti, ha già messo le mani avanti:

“Normalmente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per produrre un vaccino. Per questo, senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio. Perché vorrei essere sicuro che questo vaccino sia stato opportunamente testato e che soddisfi tutti i criteri di sicurezza ed efficacia. Ne ho diritto come cittadino e non sono disposto ad accettare scorciatoie”.

Parole tutto sommato di buon senso che hanno però scatenato l’alzata di scudi del solito Comitato tecnico-scientifico, che ha preteso un autodafé dal Crisanti, il quale invece ha rincarato la dose:

“L’ambiente scientifico italiano è un po’ provinciale. Se io avessi detto quello che ha detto l’editore del British Medical Journal, più che criticato sarei stato lapidato. Lui ha fatto un editoriale feroce su come è stata gestita la questione vaccini, io mi sento in ottima compagnia perché io ho chiesto solo trasparenza. Ma sulla mia posizione a favore dei vaccini non ci sono dubbi”.

Il riferimento al British Medical Journal è particolarmente azzeccato perché la rivista medica inglese ha espresso negli ultimi mesi numerosi dubbi sull’efficacia dei vaccini che verranno presto messi in circolazione: in una inchiesta dello scorso ottobre (Will covid-19 vaccines save lives? Current trials aren’t designed to tell us) ha apertamente affermato che le cure miracolose promesse dalle aziende Pfizer e Moderna in realtà non rispetteranno nemmeno i criteri minimi stabiliti dal decano del Baylor College of Medicine di Houston (Texas), Peter Hotez, ovvero “ridurre la probabilità che ci si ammali gravemente fino a finire in ospedale e prevenire l’infezione per interrompere la trasmissione del contagio”.

Il motivo è semplice ed è principalmente statistico: i ritrovati dei due colossi farmaceutici americani sono stati testati attraverso studi che hanno coinvolto non più di trentamila pazienti, un campione decisamente esiguo per un virus che nella stragrande maggioranza dei casi provoca solo sintomi lievi.

“I ricoveri ospedalieri e i decessi per covid-19 sono troppo rari nella popolazione studiata: in uno studio di 30.000 persone non possono emergere differenze statisticamente significative. Lo stesso vale per la presunta capacità del vaccino di salvare vite o prevenire la trasmissione: non c’è nessun test che possa dimostrare tale efficacia“.

Peraltro tale “dettaglio” è stato confermato da un funzionario di Moderna, Tal Zaks: “I nostri test non possono dimostrare l’efficacia nel vaccino nella prevenzione della trasmissione, perché per farlo avremmo dovuto eseguire un tampone sui soggetti due volte a settimana per un lungo periodo, il che era impossibile da mettere in pratica”.

Perciò dobbiamo concludere che il vaccino, annunciato un attimo dopo la conclusione delle elezioni americane (ma nemmeno sulla tempistica si possono avanzare dubbi), nel migliore dei casi non servirà né a prevenire l’insorgere di sintomi gravi né a frenare la diffusione del virus, e nel peggiore potrebbe avere effetti collaterali nei confronti dei quali i produttori si sono comunque già ampiamente svincolati con un apposito “scudo legale”.

Tutto questo mentre il premier Giuseppe Conte imbastisce l’ennesima conferenza sull’ennesimo DPCM e discutendo proprio dei vaccini utilizza l’espressione “trattamento sanitario obbligatorio” per parlare dell’eventualità di imporre l’obbligo vaccinale agli italiani, scomodando una sigla (TSO) che in Italia ha una connotazione ben precisa ed indica esclusivamente quelle “procedure sanitarie conseguenti al rifiuto al trattamento del soggetto che soffra di una grave patologia psichiatrica non altrimenti gestibile“.

“Se noi siamo in una condizione di gestire la curva del contagio, come confido stiamo facendo e continueremo a fare, non sarà necessario imporre un trattamento sanitario obbligatorio e preferiamo, fino all’ultimo, preservare la facoltatività della vaccinazione”.

Ecco perché ogni tanto viene utilizzata l’espressione covidioti: non come offesa fine a se stessa, ma come descrizione icastica dell’attuale classe politica e di tutti colori si sentono degnamente rappresentati da essa.

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