Maurizio Blondet con le giapponesine a New Orleans

I lettori continuano a segnalarmi il fatto che il caro vecchio Maurizio Blondet, ormai da tempo immemore, copia i miei articoli senza mai citarmi. Il lato imbarazzante della faccenda è che probabilmente egli stesso ignora che quel materiale sia mio, poiché ipotizzo che nella maggior parte dei casi siano i suoi friends (che magari non sono tutti frens) a spedirgli roba copia-incollata via email, che lui a sua volta copia-incolla sul suo portale senza eccessiva cognizione di causa (a febbraio ha compiuto 80 anni e non possiamo nemmeno dargli del boomer).

Non me la sento di scrivergli o avvisarlo, ma nemmeno trattarlo con troppa condiscendenza, atteggiamento che forse lo offenderebbe di più piuttosto che non una risposta maschia e schietta (alla fin fine è pur sempre un maschio sigma!).

Dunque, per “vendicarmi”, riporterò un paio di bellissime pagine dal suo Il Collasso. Democrazie, autocrazie, teocrazie di fine millennio (1999), nel quale descriveva un viaggio in Louisiana anticipando praticamente tutti gli argomenti di cui si sarebbe discusso nei decenni successivi nell’area: le waifu (I hope you will enjoy your stay with us, Blondetto-san), i piddini bianchi e reazionari, l’americanizzazione dal volto umano. Buona lettura.

«Mi manca lo spazio [per parlare di New Orleans]. Dovrei dire delle ragazze coreane, straordinariamente assertive e lucide. Dei colombiani, che (sarà anche questo un caso) sono quasi tutti architetti o pittori, si credono europei (e non lo sono). Delle giapponesine che, al contrario delle coreane, fanno sforzi eroici per esprimere opinioni personali (in Giappone è maleducato). Una conversazione sull’arte di ogni paese – guidata dalla insegnante di conversazione, una signora che la sera lavora in un centro elettronico per arrotondare – trova le coreane confuse: a scuola studiano Michelangelo e Velasquez, non gli artisti della Corea. In proposito pare ci sia un aspro dibattito, fra i modernizzatori e gli “orientalisti”, che vorrebbero riallacciare l’istruzione alle radici della tradizione, ma le scuole sono di tipo americano.

Dovrei dire dell’incantevole Yukari, una fanciullina (ha ventotto anni) che vuol imparare l’inglese per fare l’assistente di volo. Si sforza timidamente e con un filo di voce finisce per dire: “In Giappone l’arte ha a che fare col silenzio”. È profondamente vero, e cerco di dirlo con il mio misero inglese: l’arte giapponese vive del “non detto”, dell’alone che rende infinite le poche sillabe o i pochi tratti di china; si chiama Iki, credo, quella sprezzatura elegante che s’astiene dal dire i sentimenti, sottintendendo in chỉ guarda o ascolta un’anima abbastanza alta da comprenderli. All’aperto, dopo, mi attorniano tre o quattro ragazzine del Sol Levante. “Lei conosce bene il Giappone”. Ma le estasia soprattutto sapere che sono di Milano. “Allora conosce Prada?”. La boutique? Si, è dalle parti di via Montenapoleone. O di via della Spiga, non so. Divento oggetto di venerazione: le giapponesine vedono attorno a me l’aura di Montenapo, di cui sanno a memoria i negozi. Il giorno dopo, Yukari mi consegna una cartolina che riproduce una stampa giapponese. Vi ha scritto: “Spero che amerà il soggiorno con noi”. Iki.

“New Orleans” si pronuncia, e talora perfino si scrive, N’Awlins. Poi chiedetemi perché studio l’inglese da trent’anni e ancora non lo so.

Gli amici liberal americani mi conducono allo Swamp Festival (Festa della Palude): “Si suona la nostra vecchia musica cajun“. Nel Parco Audubon, aria da Festa dell’Amicizia: ma i padiglioni mangerecci non vendono gli hamburger panamericani, però po-boys (bigné ai gambe retti), gumbo(granchi piccanti e riso alla creola), garlic bread (una bruschetta all’aglio su una mezza baguette di pane francese), quichecon carne di alligatore (che non riassaggerò). La birra non è l’insipida Budweiser di tutti i supermercati, si chiama Abita, ed è sapida e scura e fatta da una birreria della zona: sapori e cibo che ricordano un altro, più antico Paese.

Poi muscolosi giovanotti in jeans, su un palco, attaccano la musica: anziane signore in giacca da cow-boy con le frange, uomini con bermuda rossi-e-blu a stelle-e-strisce, tutti ballano come sull’aia; non a coppie solo, ma a file affrontate, allacciandosi l’un l’altro con le braccia dietro la schiena in una specie di antica danza campestre. E la musica, la riconosco subito. Sono le ballate di una paysannerie in Europa scomparsa, di prima della Rivoluzione. Ritmi popolari ma così antichi da esser classici, e tra l’inglese indecifrabile colgo altre parole:

Oh madame Sosthène
Donnez moi Lida
C’est la seule che moi j’aime
Dès l’age de quatorze ans.

Ho le lacrime agli occhi mio malgrado, e gli amici americani vogliono sapere perché. Come spiegare la fitta che dà riascoltare voci di Vandee e di Borgogne che emigranti-esploratori del ‘600 portarono qui, che da noi non esistono più e che l’America invece non ha dimenticato? Dovrei dire anche il dolore per trovare qui, vive, memorie che “noi” abbiamo cancellato per abbracciare senza residui una modernità che crediamo “americana”. E che ciò che abbiamo perso non sono solo canzoni, ma noi stessi: ci vuole un popolo perché le antiche canzoni vengano ancora cantate.

Gli americani sono ancora un popolo: ho avuto questo sospetto a New Orleans. “Ma a voi, questa musica piace?”, ho chiesto al miei amici progressisti. Hanno annuito vivacemente: “E il nostro southern heritage“, In America accade che anche i progressisti usino parole come “retaggio”. Anche il primo jazz che è nato qui in Louisiana, il dixieland di Louis Armstrong, deve qualcosa a quelle balate, mi hanno fatto notare: gli schiavi negri avevano queste canzoni nell’orecchio e nel cuore, l’ascoltavano nella tradizionale festa di N’Awlins, che è il Mardi Gras. E nel loro jazz misero, senza saperlo, un ricordo di Ancien Régime.

I Francesi, fino a Napoleone, ebbero in mano tutto il corso del Missisippi, un terzo dell’attuale territorio degli Stati Uniti, Avessero potuto tenerlo! I Francesi non sterminavano i pellerossa; ne sposavano le figlie. In tutte le battaglie contro i colonizzatori inglesi i pellerossa preferirono star dalla parte francese, battersi sotto il giglio. L’America sarebbe meno potente ma meno spartana e meno dura con sé e con gli altri, piú mescolata, cattolica, gaudente, fastosa: sarebbe tutta come New Orleans. La sola città americana dove non ci si smarrisce nelle distanze anonime. Dove la vita ha una dolcezza e uno splendore anche per chi non è miliardario. La sola in cui l’automobile non è una necessità: orgoglio della municipalità, un vecchio tram l’attraversa scampanellando, senza fretta.

La criminalità violenta non l’ho vista. Certo la gente è prudente: nessuno cammina di notte per le belle vie alberate, nessuno prende il fresco sulla sedia a dondolo sotto i colonnati. Può passare un’auto da cui ti tirano un colpo di revolver. La sopraffazione in Usa si esprime come nuda e diretta violenza cieca. È l’altra faccia di una società che pigia di continuò su potentissimi freni inibitori per essere socievole, comunicativa, helpful; e dove la zona della “società” si tiene duramente separata da quella della “dissociazione”, dell’insocievolezza, che è criminale.

Il calo della criminalità in tutte le città americane si spiega con una repressione draconiana: dopo tre delitti, anche minori, il malvivente è out, si prende l’ergastolo senza remissioni né indulgenze. Da noi la sopraffazione è untuosa soperchieria si esprime in frode e in truffa che fanno parte della nostra vita, si pratica nelle aule dette “di giustizia” e negli uffici pubblici dove s’accumula il potere. Non dico sia peggio. Ma a volte, per cambiare, preferirei il rischio della revolverata di un negro marginale nella notte.

Nel Museo della Guerra Civile di New Orleans, tra fucili e vecchie giubbe grigioazzurre, è esposta una corona di spine. Il cartiglio spiega che Pio IX l’intrecciò con le sue mani e la mandò a Jefferson Davis, primo e ultimo Presidente degli Stati Confederati, mentre si trovava detenuto, sconfitto e incriminato per tradimento, alla Fortezza Monroe in Virginia: con una lettera in latino in cui citava parole evangeliche dalla Passione. Jefferson Davis, protestante, l’accolse con commossa devozione. Lungi da me interpretare il senso di quel gesto di un Papa. Ma se il Nord aveva la vittoria e forse la ragione, so che il Sud meritava un omaggio di nobile, cavalleresca malinconia. Quella che parla ancora nei colonnati di New Orleans».

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4 thoughts on “Maurizio Blondet con le giapponesine a New Orleans

  1. Buonasera mr. Totalitarismo, non so quanti anni lei abbia, ma con i miei quarant’anni io sono stato cresciuto da Blondet e gli devo molto della mia consapevolezza odierna, e come me immagino molti altri, quindi la prego di scrivergli con benevolenza. Venticinque anni fa pochissimi osavano puntare il dito sul web e non , verso i serpenti che infestano il mondo. Se non ci fosse stato nonno Maurizio magari brancolerei anche io nel buio della moltitudine. Buona serata

    1. Concordo con Marco. Una correzione fraterna può solo fargli bene, per tanti è stato un faro nella notte del conformismo e modernismo.

  2. Però, scriveva bene! Chissà quanta archeologia artistica c’è da fare tra i ruderi complottisti (l’arte nasce sempre dall’emarginazione?)? Ciao!

    1. Io di Blondet ricordo, oltre alla sua produzione di libri e articoli, la cacciata da Avvenire per aver criticato pretame e finocchi in redazione e la sua predizione del 2005 sul crash dei mutui subprime.

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