Site icon totalitarismo.blog

Meglio stalinista che frocio

«Quando Kaganovič propone [a Stalin] di sostituire la dizione di marxismo-leninismo con quella di marxismo-leninismo-stalinismo, il leader a cui è rivolto tale omaggio risponde: “Vuoi paragonare il cazzo con la torre dei pompieri”»

Mettiamo subito le mani avanti: recensire un libro come Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, Roma, 2008) del compianto Domenico Losurdo (1941-2018) senza perdere la faccia è praticamente impossibile, poiché una stroncatura equivarrebbe a negare ogni validità alla ricerca storica (che ovviamente può essere anche revisionista), mentre il più blando degli apprezzamenti finirebbe per assomigliare a un’indebita apologia del dittatore sovietico (o direttamente a una Apologia del Bolscevismo, come il titolo di uno scritto di Guido De Ruggiero del 1922).

In verità al “Piccolo Padre” gli encomi non sono mancati, anche se solo una piccola parte dei sostenitori ha fatto in tempo a pentirsi. Sicuramente il più singolare dei panegirici rimane quello di Alcide De Gasperi, pronunciato a un intervento al Teatro Brancaccio nel luglio del 1944:

«Quando vedo che mentre Hitler e Mussolini perseguitavano degli uomini per la loro razza, e inventavano quella spaventosa legislazione antiebraica che conosciamo e vedo contemporaneamente i russi composti di 160 razze cercare la fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa, questo tentativo, questo sforzo verso l’unificazione del consorzio umano, lasciatemi dire: questo è cristiano, questo è eminentemente universalistico nel senso del cattolicesimo».

Volendo sorvolare sul paragone (surreale) col cattolicesimo, rimane arduo giustificare i toni dello statista democristiano senza un adeguato inquadramento storico: sarebbe infatti ingiusto pensare che De Gasperi non fosse sincero quando esprimeva tali apprezzamenti per Stalin, e non interpretasse quindi un sentimento all’epoca diffuso.

L’interpretazione dominante tuttavia resta quella di Stalin e Hitler come due facce della stessa medaglia: per questo Losurdo, più che occultare le “birichinate” del tiranno bolscevico, si preoccupa in primis di metterle a confronto con quelle dell’imperialismo anglosassone. Da questo punto di vista, il libro è quasi un supplemento a Controstoria del liberalismo (2005). La tecnica usata è appunto la stessa: la comparazione tra i crimini contro l’umanità di entrambe le parti serve a ridimensionare le simbologie “mostruose” inconsciamente utilizzate per descrivere quell’incubo che ci ostiniamo a chiamare Storia. Il problema è che tale impostazione è suscettibile di varie critiche, tra le quali la più diretta e ovvia è questa: gli orrori del comunismo non andrebbero riconosciuti come tali, indipendentemente da quello che hanno combinato Inghilterra e America?

La risposta chiaramente è “Sì”, ma d’altro canto bisogna ammettere che su tali argomenti si preferisce sempre stendere un velo pietoso: se, per esempio, uno storico osasse affrontare le figure di Churchill e Roosevelt come quella di Stalin, come minimo riceverebbe una tirata d’orecchie, e non solo in senso metaforico (considerando le leggi sul revisionismo che gli Stati europei stanno progressivamente adottando).

Se è vero poi che la storia la scrivono i vincitori, è per giunta un paradosso che la figura di Stalin venga ancora studiata attraverso la lente della propaganda. Ovviamente non si tratta, ripeto, di giustificare qualsiasi militanza “stalinista” oggi, ma di accettare l’operazione storica di Losurdo nello stesso modo in cui si accolgono i volumi di Robert Conquest – un personaggio sul quale Losurdo si sofferma per alcune pagine del libro, riportando certe imbarazzanti affermazioni sulla superiorità della “comunità di lingua inglese” e del fondamento etnico “anglo-celtico” (cfr. Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2001, pp. 275, 307).

Stalin è tra i vincitori, e ciò è innegabile – anche se lui stesso in privato ammetteva che senza la potenza industriale americana non ce l’avrebbe mai fatta (p. 328). Per porla in altri termini: per il tributo di sangue, il dispiegamento immane di forze e il “genio strategico” (riconosciutogli da De Gasperi!), il vincitore materiale è lui. L’affermazione è pesante, ma fa il paio con quella che vorrebbe la vittoria degli anglo-americani come conseguenza di un intervento divino: levato di mezzo Stalin, in effetti, la ricostruzione storica è costretto ad appigliarsi al “preternaturale” per giustificare un podio dei vincitori composto esclusivamente da Roosevelt e Churchill. Sono convinto che, se ne avessero la possibilità, gli storici taglierebbero il leader sovietico dalla foto di Yalta nello stesso modo in cui egli eliminava Trotskij, Kamjenev e Ježov dalle immagini di propaganda del regime.

Stalin ha vinto perché è riuscito a portare a livelli sovrumani la produzione bellica nazionale, a spostare le industrie all’interno per metterle al riparo dall’attacco nemico, a risvegliare gli spiriti patriottici con tutto l’armamentario simbolico della Santa Madre Russia minacciata dall’orda maledetta (come fa il verso di un inno alla guerra santa sovietica). Non si può quindi semplicemente affermare che il progetto hitleriano fosse intrinsecamente malvagio e che la mano di Dio ha solo aiutato gli anglo-americani a spazzarlo via per sempre; si tratta di una favola che con la fine della Guerra Fredda dovrebbe esser messa da parte. Soprattutto ora che, con i nuovi attriti tra Washington e Russia, la storia sembra ripetersi: su questo punto il libro, nonostante sia stato scritto anni fa, ha ancora qualcosa da dire.

L’affermazione che, senza Stalin, non esisterebbe una coscienza nazionale ucraina, può sembrare assurda solo all’apparenza: le fonti storiche dimostrano che Stalin fece di tutto per rendere l’Ucraina indipendente (una testimonianza insospettabile la si trova nei rapporti dei diplomatici fascisti). Attraverso il commissario del popolo Lazar Kaganovič (di origine ebraica), Stalin promosse l’ucrainizzazione di quella parte dell’impero sovietico, favorendone l’alfabetizzazione ed erigendo statue al poeta nazionale Taras Ševčenko. Fa specie scoprire che all’epoca questa politica trovò una fortissima resistenza da parte dei russofoni e che anche Anton Denikin, storico generale dell’Armata Bianca, si rifiutava di ammettere l’esistenza del popolo ucraino (in continuità con la tradizione autocratica zarista).

Al di sopra di tutti questi bei discorsi incombe l’Holodomor, il genocidio per fame che gli ucraini subirono dal 1929 al 1933. Losurdo non lo nega, ma tenta di attribuirlo all’ideologia “sviluppista” che animò l’URSS: durante la sua esistenza l’impero sovietico non ebbe remore a sacrificare milioni di persone per passare “dall’aratro di legno alla pila atomica”. Almeno a parole, non c’è nessun intento di sterminio: può sembrare un’annotazione ingenua, ma ai tempi rivendicare l’annientamento di interi popoli in nome della Ragion di Stato non creava alcun problema di coscienza.

Se pensiamo al modo in cui gli inglesi giustificarono le carestie in Irlanda e nel Bengala come strumento di dominio, o come gli americani promossero la tortura dei prigionieri tedeschi durante la guerra (perché “ogni bambino biondo nasconde un piccolo Führer”), possiamo allora stupirci delle numerose dichiarazioni d’amicizia di Stalin verso il popolo ucraino. Ben diverse sono le affermazioni di Hitler, che nelle Conversazioni a tavola auspicava lo sterminio dell’80-90% degli ucraini e l’assoggettamento del restante 10% della popolazione alla nuova razza dei signori. Gli ucraini che oggi rimpiangono il nazismo, incoraggiati dalla stampa occidentale (soprattutto quella “progressista”), dovrebbero domandarsi se con una vittoria del Führer sarebbe rimasto nell’intero universo un solo pezzo di terra chiamato “Ucraina” (il “liberatore” fu abbastanza chiaro su questo: «Si può intraprendere la germanizzazione del suolo, giammai degli uomini»).

Lasciando per un attimo da parte questa intricatissima questione, vorrei precisare ancora che a me non disturba affatto che l’Holodomor venga definito “olocausto”, anzi auspico che non si smetta mai di parlarne. Quello che invece mi disturba (pur non provando alcuna simpatia verso il comunismo) è il fatto che in settant’anni una delle dittature più spietate non sia riuscita a estirpare ogni orgoglio nazionale. Anche in questo caso, o si cerca una spiegazione storicamente plausibile oppure si tira in ballo la provvidenza. E se gli stati dell’URSS fossero stati davvero delle repubbliche, e non soltanto colonie? Oggi queste nazioni sono comprensibilmente intolleranti verso le minoranze russe al loro interno, ma tale difficile convivenza non è mai degenerata nei massacri da ex-Jugoslavia (almeno finora).

Nell’ipotesi assurda che gli Stati Uniti facessero la fine dell’URSS, è difficile pensare che il Texas o la California possano trasformarsi in breve tempo in due nazioni dalle caratteristiche etnico-culturali ben definite: da costa a costa l’homo americanus è sempre lo stesso, e il mormone e il newyorchese si assomigliano molto di più che non il ceco e il polacco. Saranno stati poco furbi, i russi? È probabile, ma tornando a Stalin la sua volontà di favorire i “localismi” in senso opportunistico (anticolonialista e antitedesco) è esplicita. Quanto accaduto dopo il 1989 dimostra che non fu soltanto propaganda.

Il fatto che le nuove repubbliche nate dal crollo sovietico poi non ne vogliano sentir parlare, è soprattutto dovuto alle dinamiche con cui si costruisce una identità nazionale: è più facile fondare i valori collettivi contro un nemico comune che non su vaghi ideali. Dopo vent’anni però tutte le complicazioni passate in secondo piano rispetto a un’indipendenza piombata dal cielo stanno emergendo sul confine imperiale. Al di là però dalle interpretazioni che si possono dare alla figura di Stalin, come rappresentante della tradizione autocratica russa o leader mondiale del comunismo, come negazione assoluta di Lenin oppure fedele prosecutore della sua opera, l’Occidente (o quel che si definisce tale) dovrebbe far tesoro delle esperienze passate

Exit mobile version