Milano: anarchici deturpano murales dedicato a Falcone e Borsellino

In Corso Di Porta Ticinese a Milano c’è un murales dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino realizzato nel 2013 dall’artista siciliano Tunus. Da una decina di anni l’immagine è soggetta a ripetuti atti di vandalismo: nel 2018 era stata disegnata una pistola nella mano di Falcone che puntava alla testa del suo collega e il gesto aveva suscitato grande indignazione, a cominciare dal Primo Cittadino (“un gesto ignobile che non ferma la lotta alla mafia portata avanti ogni giorno con coraggio da Milano”). L’estate scorsa poi l’opera era stata imbrattata dalla firma di uno scarabocchiatore, ma allo sfregio non era seguita alcuna reazione, a parte la giusta rimozione della scritta (peraltro praticamente incomrpensibile).

Ora, si dà il caso che nell’ottobre 2022 si sia verificato un altro episodio di vandalismo che rispetto agli altri assume contorni ben più gravi e inquietanti: un’anonima mano ha coperto la faccia di Borsellino con lo slogan “L’antimafia tortura nelle galere”. Dopo quasi sei mesi, non solo non c’è stata nemmeno una vox clamantis in deserto a denunciare il fatto, ma nessuno ha ancora provveduto a rimuovere la scritta oltraggiosa.

Questo ritardo è particolarmente sospetto, considerando quanto accaduto negli ultimi tempi nel nostro Paese. In estrema sintesi: il 5 maggio 2022 l’allora governo Draghi, su iniziativa del ministro della Giustizia Marta Cartabia, poneva al regime di 41bis il terrorista anarchico Alfredo Cospito, già graziato nel 1991 ma arrestato ancora nel 2012 per aver piazzato due ordigni di fronte a una caserma dei Carabinieri nel 2006 e aver gambizzato un dirigente dell’azienda metalmeccanica Ansaldo (tacciandolo, in modo surreale, di essere “uno dei maggiori responsabili del disastro nucleare che verrà”). Solo dopo l’insediamento del nuovo governo Meloni, il terrorista si è accorto che la sua condizione fosse insopportabile e il 20 ottobre 2022 ha cominciato uno sciopero della fame.

La questione politica è rimasta a covare sotto le ceneri fino a quando, il 16 gennaio 2023, non è stato arrestato il boss mafioso Matteo Messina Denaro: da quel momento in poi, con una tempistica ancor più sospetta, sono esplose le proteste degli anarchici e l’opposizione ha cominciato ad assumere posizioni ambigue sulla questione del cosiddetto “carcere duro”. In particolare gli animi si sono accessi quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli si è limitato a ricordare in aula che una delegazione del Partito Democratico, capitanata dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e dal capogruppo alla Camera Debora Serracchiani, ha fatto visita a Cospito il 12 gennaio (notizia riportata il giorno dopo da molti giornali), il quale li avrebbe poi indirizzati a discutere con altri mafiosi dell’abolizione del 41 bis.

La reazione isterica del PD ha dimostrato quanto Donzelli abbia toccato un nervo scoperto: tuttavia, l’ex Ministro e i suoi accoliti non hanno colto l’occasione per superare l’ambivalenza delle loro istanze, cioè a chiarire che la loro polemica non fosse rivolta contro l’istituto del 41bis in sé, ma solo alla sua applicazione a un detenuto come Cospito.

Si può osservare, nella dichiarazione di cui sopra, come Orlando non si periti di definire una misura perfettamente legittima e costituzionale (che non serve a “torturare” il detenuto, ma solo impedirgli di comunare con le organizzazioni criminali a cui appartiene) “atto intimidatorio”. Questa posizione, obiettivamente sconcertante, è stata in sostanza assunta dal tutto il centro-sinistra, che piuttosto che rivedere le proprie posizioni equivoche, ha deciso di spaccare il Paese e addirittura mettere indirettamente in discussione il ruolo dello Stato nel contrasto alla criminalità organizzata.

Il pastrocchio politico, a cui il pastrocchio reale sul volto di Borsellino fa da emblema, rivela tutta l’ipocrisia con cui la “parte migliore del Paese” si è impegnata a fondare una sorta di religio civilis sulla figura dei due magistrati sterminati dalla mafia.

A tal proposito, mi permetto qualche aneddoto personale: come sa chi mi segue, il sottoscritto è un ex docente che ha smesso di insegnare nel momento in cui è stato introdotto l’obbligo di Green Pass per i lavoratori della scuola. In tale veste posso testimoniare delle ricorrenti liturgie anti-mafia che, nel loro moralismo melenso e nella loro stucchevole ripetitività, sono risultate pressoché inutili a dare contezza del fenomeno ai giovani italiani, traducendosi perlopiù in iniziative extrascolastiche talvolta di dubbio gusto (come quando a delle scolaresche della primaria venne fatto inneggiare il coro “La mafia è una montagna di merda”, come se dei bambini potessero davvero afferrare la potenza del messaggio di Peppino Impastato oltre la goliardia).

Ricordo pure la superficialità, se non la sciatteria, con cui alcuni colleghi imbastivano le fatidiche “Giornate” e l’ansia di “neutralizzare” la possibilità che da quelle interminabili geremiadi scaturisse un qualche tipo di riflessione. Non vorrei entrare troppo nel personale, né infangare nessuno, ma era evidente che i primi a esser poco o nulla convinti della funzione pedagogica di certe cerimonie erano gli stessi che poi in pubblico si sgolavano sulla fatidica “educazione alla legalità”.

Potrei perdermi in dettagli più grotteschi, citando qualche collega meridionale che in camera caritatis affermava senza mezzi termini che “al Sud la mafia non esiste” (con argomenti del tipo “mai visto una macchina esplodere nel mio quartiere”), oppure il genitore che nella giornata anti-mafia teneva il figlio a casa perché non voleva che si “impressionasse” per quelle brutte storie (ma c’era il sospetto che il padre non volesse fargli sapere il suo vero mestiere), o quell’altro ragazzino appena arrivato dalla Sicilia che canticchiava canzonette pro-mafia (evidentemente diffuse tra la gioventù della Trinacria?) e tuttavia non si beccò nemmeno una nota (in un classico esempio di congiunzione tra buonismo, lassismo, perdonismo e menefreghismo).

Mi sembra che, non solo col senno di poi, si possa affermare che la retorica anti-mafia è davvero pura retorica e basta: gli auto-proclamatisi rappresentanti della “società civile” a quanto pare erano più preoccupati a celebrare la propria -inconsistente- superiorità morale attraverso querimonie e kermesse, piuttosto che proporre qualcosa di concreto contro il fenomeno. Ad ogni modo, lo sfoggio di santini laici e parole d’ordine suggestive era perlomeno servito a stabilire la superiorità di un qualche vago principio (la Legge, lo Stato, la Giustizia) sull’ideologia di riferimento: uno straccio di coscienza nazionale, insomma, che tuttavia quella parte politica ora ha deciso di buttare nel cestino della storia in nome di non si sa bene quale “ideale”.

Da una parte si dovrebbe esser lieti che i nodi stiano venendo al pettine e che un partito-sistema così insopportabilmente pronto a dar lezioni a chiunque stia “pestando un merdone dopo l’altro” (ecco un altro bel corretto per i discenti). Dall’altra, però, angoscia la perpetua accelerazione verso il peggio del peggio, la sistematica demolizione di ogni residuo di senso civico. E non si sottovaluti la “poltiglia sociale” in cui si sta verificando questa convergenza tra apparatčik, mafiosi e anarchici.

Sempre per rimanere in ambito milanese (che per fortuna ho abbandonato, anche se, come dice Al Pacino nel Padrino III, “adesso che credevo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro!”), ho notato che soprattutto nei “quartieri bene” è diventato improvvisamente di moda il famigerato cappotto di montone (si spera taroccato) che Matteo Messina Denaro indossava nel momento della cattura: in soli due-tre giorni l’ho visto indosso a orde di boomer decerebrati la cui vuotezza abissale trascina verso sé qualsiasi ipotesi (banditismo romantico? lobotomia hollywoodiana? piddinismo di lotta e di governo?). Come se non bastasse, i baracchini dei bangla si sono riempiti di carabattole (calamite, posaceneri, accendini, cuscini, persino grembiuli) con impresso il faccione di Marlon Brando che intrepreta Don Vito Corleone e il motto “Il padrino sono io”, esattamente la stessa ritrovata nel covo di Messina Denaro.

La deriva deve preoccupare soprattutto perché assecondata da chi tiene le redini dell’informazione: da tale prospettiva, non credo manchi molto prima che la “saldatura” si compia proprio con un altro vilipendio al cadavere di Giovanni Falcone, a cui per oltre trent’anni è stato perdonato l’encomio nel confronto del perfetto di ferro Cesare Mori (dal popolarissimo libro-intervista Cose di cosa nostra, 1991):

«L’unico tentativo serio di lotta alla mafia fu quello del prefetto Mori, durante il Fascismo, mentre dopo, lo Stato ha sminuito, sottovalutato o semplicemente colluso. Sfidiamo gli antifascisti a negare che la mafia ritornò trionfante in Sicilia ed in Italia al seguito degli “Alleati” e degli antifascisti, in ricompensa dell’aiuto concreto che essa fornì per lo sbarco e la conquista dell’isola!».

Così, papale papale. Forse la portata delle affermazioni di Falcone è talmente enorme da aver generato come unica risposta la rimozione: eppure il fatto che ciò che chiamiamo attualmente “mafia” sia a tutti gli effetti un fenomeno “importato” dagli Stati Uniti è considerato un “Segreto di Pulcinella”. Dalle nostre parti, si intende, perché in America è invece una parte fondamentale della cultura popolare, ispirazione infinita per libri, documentari e pellicole: chi non conosce la sterminata filmografia sul tema, che ha contributo in maniera cruciale a creare il “mito” della mafia a livello internazionale?

Proprio mentre noi italiani ci struggiamo annualmente nel ricordo della strage di Capaci, produttori registi e sceneggiatori oltreoceano si affannano a sfornare prodotti sempre più apologetici e assurdi. L’ultimo in ordine di tempo è la serie televisiva Tulsa King, dove un ex boss newyorchese (interpretato da Sylvester Stallone, che fino al 2022 aveva sempre interpretato ruoli positivi) viene mandato in Olkahoma per espandere le attività della sua famiglia: la mafia diventa non solo un gioco, uno spasso, ma anche espressione di coraggio, intelligenza e imprenditorialità.

Falcone sapeva benissimo di quel che parlava: il tema, seppur tabù, era stato affrontato dall’ormai classico Mafia e politica del professor Michele Pantaleone (pubblicato da Einaudi nel 1962 ma fuori catalogo da oltre cinquant’anni), al quale purtroppo non molti hanno fatto seguito. Per chi volesse approfondire, posso suggerire La prima trattativa Stato-mafia di C.M. Lomartire e Controstoria della liberazione di Gigi Di Fiore (che affronta la questione solo nel primo capitolo ma va comunque letto). Per chi capisse (bene) l’inglese, allo stato dell’arte la ricerca più completa è The Mafia at War di Tim Newark, che partendo paradossalmente dal proposito di smentire la “teoria del complotto” che gli Alleati siano riusciti a sbarcare in Sicilia con l’aiuto della mafia, finisce per avallare e confermare tutti i contatti avuto tra le istituzioni americane e i boss italo-americani.

Del resto, anche i numerosi studi del professor Salvatore Lupo sono su una stessa linea debunkerista, ma lo storico, rivolgendosi proprio agli studiosi d’oltreoceano, non ha alcuna esitazione nell’ammettere che

«Gli americani che sono abituati a pensare alla mafia come un qualcosa di importato dalla Sicilia rimarranno forse stupidi dall’apprendere che nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale molti italiani consideravano la mafia come un prodotto importato dagli Stati Uniti, dove aveva acquisito quegli attributi di gangsterismo che l’avevano resa differente e molto più pericoloso dalla vecchia mafia locale» (cfr. The Allies and the Mafia, “Journal of Modern Italian Studies”, vol. 2, n.1, primavera 1997).

Pur riportata dal Lupo come convinzione del popolo, tale conclusione appare nero su bianco nella “Relazione finale” della Commissione Antimafia della VI Legislatura (1976), stilata dal senatore democristiano Luigi Carraro:

«La condotta degli Alleati prima e dopo l’occupazione costituì un fattore di primaria importanza per la ripresa nell’isola dell’attività mafiosa. L’azione degli Alleati servì almeno in parte a ridare forza alla mafia, a restituirla, con nuove energie, alla sua funzione di guardia armata del feudo, a creare infine le premesse di quel collegamento tra mafia e banditismo che avrebbe insanguinato per anni le pacifiche contrade dell’isola».

L’argomento, come si diceva, è tutt’altro che inedito nel cinema americano (mentre in quello nostrano, non vorrei sbagliarmi, è stato affrontato -non “di passaggio”- dal solo Lucky Luciano di Francesco Rosi con Gian Maria Volonté del 1973), anzi in alcune opere è anch’esso ammantato di sfumature mitiche: per fare un solo esempio, quando in un episodio delle serie I Soprano, il protagonista Tony Soprano passa informazioni all’FBI su alcuni suoi tirapiedi mussulmani passati dallo spaccio al finanziamento del terrorismo, ottenendo in cambio una soffiata sulla posizione di un boss rivale, il tutto viene giustificato da entrambi proprio “in onore” della collaborazione tra mafiosi italiani e governo americano durante la Seconda Guerra Mondiale.

Questa pseudo-digressione serve solo a chiarire i motivi, non solo politici (forse più “geopolitici”), per cui nel nostro Paese non si può far piazza pulita della mafia se non a parole, nonché a spiegare l’eterna convivenza tra condanna assoluta ed esaltazione romantica della stessa. D’altro canto la questione risale ancor prima che il cinema americano favorisse il filone gangster per fornire un’alibi all’alleanza stretta con Lucky Luciano e compari: se pensiamo che quest’ultimo, estradato in Italia dallo stesso giudice che pochi anni prima lo aveva condannato a cinquant’anni per “l’aiuto offerto al governo durante lo sforzo bellico”, e accolto come un eroe nel suo paesello d’origine, finanziò l’apertura di un cinemetto dove come prima proiezione impose Little Caesar di Mervyn LeRoy del 1931, vero e proprio “archetipo” del genere. Anche da questi dettagli si può dedurre come la mafia del dopoguerra sia un “prodotto d’importazione” yankee.

Dunque, per riassumere: in un contesto dove la mafia viene ininterrottamente esaltata nella cultura di massa (con l’alibi della libertà artistica e tutto il resto), abbiamo una flebile retorica istituzionale, la quale per anni ha fatto da simulacro di “religione civile” di una parte politica che ora sembra decisa a rigettarla per fedeltà a qualche confusa e inafferrabile ideologia.

Ho ragionato a lungo sui motivi per cui la storia abbia voluto dannarci con l’eventualità di una delle più abominevoli alleanze politiche della storia italiana, e mi è tornato alla mente proprio un passaggio dalle memorie di Cesare Mori (Con la mafia ai ferri corti, 1932, ristampato nel 1993 in apprezzabile concomitanza con l’omicidio Falcone), nel quale il Prefetto di Ferro, la “belva”, sostiene che la mafia abbia una “concezione pressoché mistica” del crimine, considerandolo un elemento costituente dell’universo che non può essere contrastato, salvo voler sprecare il proprio tempo o addirittura compiere “un atto contro natura”. Lo scopo delle organizzazioni criminali sarebbe di conseguenza semplicemente quello di “porre rimedio”, mediare tra la vittima e il carnefice in modo che non venga mai messa in discussione la necessità del crimine.

Tale logica, che assomiglia un po’ troppo a una “gnosi”, pare caratterizzare altresì il buonismo dogmatico degli apparatčik, effettivamente convinti, in virtù di stranissime peripezie mentali, che contrastare il crimine sia di per sé un atto criminogeno. In fondo la polemica contro il 41bis è solo un pretesto (basti dire che, nel caso di Cospito, l’istituto si traduce fattualmente nel “sequestro temporaneo di un block notes) per proporre l’eliminazione stessa delle carceri: mettete alle strette il piddino e arriverà ad ammettere che la pena rieducativa è solo quella non scontata (almeno che il reo non abbia incidentalmente svaligiato una delle sue ville). E soltanto da questo si dovrebbe capire come la mafia non sia l’unica “montagna di merda” che gli italiani dovrebbero decidersi a spalare via.

Potremmo, in conclusione, leggere gli accadimenti di questo inizio 2023 come semplice espressione di opportunismo e pseudo-machiavellismo: ma se la storia è maestra di vita, allora vorrei ricordare a chi sogna fantasmagoriche alleanze anarco-mafiose-progressiste per abbattere il “nuovo regime”, la vicenda di Carlo Tresca, anarchico emigrato negli Stati Uniti agli inizi del Novecento, che negli anni ’30 dalle sue riviste distribuiva ad alcuni mafiosi medaglie di antifascismo e veniva ricompensato con la protezione di contrabbandieri e boss dagli attacchi dei simpatizzanti fascisti d’oltreoceano, fino a quando nel 1943, per compiacere Mussolini, il boss italo-americano Vito Genovese (che durante la guerra, vista la mal parata, passò con gli Alleati), non lo fece ammazzare da quegli stessi mafiosi che dieci anni prima gli baciavano letteralmente le mani…

One thought on “Milano: anarchici deturpano murales dedicato a Falcone e Borsellino

  1. La chiave di lettura è nel libro “Il viaggio di Falcone a Mosca”. Il legame tra una certa area politica, la mafia e gli anarchici è vecchia di decenni, se non di oltre un secolo, e alla fine fa tutto capo ai grembiulini manovrati da Londra.

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