[Tutte le citazioni, tranne dove indicato, sono tratte da Il mestiere di vivere]
«Nella vita succede a tutti d’incontrare una troia. A pochissimi, di conoscere una donna amante e onesta. Su cento, 99 sono troie» (5 febbraio 1938).
Le interpretazioni che di volta in volta vengono date del suicidio di Cesare Pavese sono di per sé indicative delle idolatrie dei tempi: se le astuzie dell’amour-passion hanno spinto i critici (succubi involontari di tale mania) a vedere nei suoi fallimenti sentimentali il martirio di un artista in cerca di ispirazione (ma Pavese fu sempre scettico su queste ubbie pseudoromantiche: «Hai avuto la fortuna di conoscere una vacca eccezionale […]. Qualunque would-be poeta pagherebbe a peso d’oro quest’esperienza, e ti lamenti?» [16 giugno 1938]), oggi la mentalità predominante rende impossibile contemplare, anche nel modo più edulcorato possibile, una qualche responsabilità muliebre.
Si ricorre quindi sempre più frequentemente all’accusa di misoginia (che «si dà sempre per scontata», come annotò l’amico e biografo Davide Lajolo nel superbo memoriale Il vizio assurdo), con l’alibi che fu il Poeta il primo a incolparsi, liquidando da sé il proprio supplizio interiore («Misogino eri e misogino resti», 26 gennaio 1938) e offrendo il destro agli esegeti, che non credettero possibile cavarsela così a buon mercato. Insomma, contro le donne non si può più dire una sola parola, e di conseguenza sarebbe da incoscienti rivangare; all’occorrenza basti qualche pagina del diario, magari scelta tra le più sferzanti, quelle che non smettono di mordere e rimordere:
«La sola circostanza in cui una donna è inferiore a se stessa, dev’essere proprio soltanto quando ha le mestruazioni. Chi conosce bene il calendario mensile di costei, sa sempre da che parte prenderla. Che è anche un doppio senso sporco – tanto meglio» (26 aprile 1936).
«Una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a un rottame. Ci riesce sempre» (3 agosto 1937).
«Che in amore chiodo cacci chiodo, sarà vero per le donne, per le quali il problema è appunto come trovare un altro chiodo da ficcarsi in cavità, ma per gli uomini che di chiodo non ne hanno che uno, è meno vero» (12 ottobre 1937).
«Le donne mentono, mentono sempre e ad ogni costo. E non c’è da stupirsi: hanno la menzogna nei genitali stessi. Chi saprà mai quando una donna ha goduto?» (15 gennaio 1938).
«Non c’è idea più sciocca che credere di conquistare una donna offrendole lo spettacolo del proprio ingegno. […] Tutt’al più si può conquistarla in questo modo, quando l’ingegno appaia un mezzo di acquistare potenza, ricchezza, considerazione – valori di cui per riflesso la donna, lasciatasi conquistare, godrebbe anche lei» (31 agosto 1940).
«Nessuna donna fa un matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario, d’innamorarsene» (14 aprile 1941).
Certo è difficile astrarre una dimensione “sentimentale” dell’Autore da tutto il resto: anche Lajolo, sia come critico tra i più brillanti che come “confessore” personale dell’Autore, non può fare a meno di notare che costui, «non [potendo] amare le donne che lo amerebbero, deve rincorrere quelle che non lo amano» (sulla stessa linea anche Cesare Segre: «Sembra che Pavese si rivolga sempre a donne che, in modo diverso, sono le meno adatte a realizzare il tipo di unione che lui vagheggia»). Interpretazione semplicistica, ma che conserva pur un briciolo verità se Pavese stesso si riconobbe tale “difetto” in vari luoghi, ad esempio in una lettera a Fernanda Pivano dell’ottobre 1940, scritta in forma di auto-analisi: «Una volta che sarà innamorato, Pavese farà esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto»..
Tuttavia, anche dietro alla predilezione (vera o presunta) per la “donna sbagliata”, c’è una visione del mondo ben precisa, nella quale il Nostro si contempla esclusivamente nelle vesti di “nato schiavo”, fallito dalla nascita, impossibilitato a unirsi alla donna e, attraverso di essa, ricongiungersi alla vita: «Dimentichi sempre che sei nato schiavo. Ti pare sempre di ricevere dei torti. Ma può uno schiavo ricevere dei torti?» (20 febbraio 1938); «Hai l’anima dello schiavo, non del santo» (12 aprile 1947).
Il mondo è infatti dominato dagli olimpici: «Tu non sei nato olimpico e mai lo sarai: i tuoi sforzi sono inutili. Perché chi ha ceduto una sola volta al tumulto, può sempre cedere un’altra. Problema d’ingegneria: ogni ponte ha una portata di là dal quale non regge» (15 gennaio 1938). Come osserva Marziano Guglielminetti, l’aggettivo non va inteso «[nel senso] usuale di “serenità classica”, che tutt’al più coinvolge il solo Goethe». Gli olimpici sarebbero quei poeti che patiscono giudiziosamente le passioni più sconvolgenti e restano immuni dai tumulti interiori: «I grandi poeti sono rari come i grandi amanti. Non bastano le velleità, le furie e i sogni; ci vuole il meglio: i coglioni duri. Che si chiama altresì l’occhio olimpico» (17 novembre 1937).
La categoria degli “olimpici” include Shakepeare e Goethe (perché appunto hanno i “coglioni duri”), gli “uomini d’azione”, le donne répandues (un’espressione che indica tutte quelle che fanno vita sociale, ovvero “troieggiano”: «chiavando si chiava e basta – una donna ha tutto da perdere; ma, troieggiando, si gode coi sensi, si asservisce l’uomo, si trionfa del suo desiderio, si cresce di valore sessuale…» [19 gennaio 1938]), generalmente coloro i quali hanno successo persino nella più ristretta delle cerchie sociali − e anche le donne, in definitiva, sono da considerare “uomini d’azione”: «Le donne hanno una profonda fondamentale indifferenza per la poesia. Somigliano in questo agli uomini d’azione – le donne sono tutti uomini d’azione –» (14 ottobre 1940).
Per Pavese, di norma, «gli dèi sono gli altri, gli individui autosufficienti e sovrani, visti dall’esterno» (6 gennaio 1946); “olimpici” sono persino i militanti del Partito Comunista, i compagni e soprattutto le compagne che con il loro ostracismo «l’impossibilità di comunione umana» e la necessità che al mondo ci siano «servi e padroni, non uguali» (15 ottobre 1940).
Sopraffatto dalla spietata dicotomia che crede di aver individuato, il Poeta sancisce per se stesso l’impossibilità di conquistare una donna come «spregevole scotto da pagarsi all’Armonia prestabilita» (24 gennaio 1938), e «il solito marasma di una passione» come «pura legge del mio mito» (23 giugno, 1946). Un destino da s-figato in senso etimologico, come quello del protagonista di uno dei racconti di Feria d’agosto (“Le case”), al quale viene fatto credere che un giorno sarebbe arrivata anche per lui l’età in cui «le donne ti corrono dietro», ma che infine rimane solo e passa le domeniche invidiando gli amici sposati. Lo stesso destino di Pavese che, ricorda ancora Lajolo, resta «trattenuto in uno stato d’inferiorità», quella «di un uomo che non può produrre, d’una pianta che non dà frutto, di un terreno sterile, di una vigna rosa dalla filossera».
All’epoca non esisteva l’espressione morire di fica, ma chissà a quanti saranno balenate formule riconducibili al medesimo concetto. Non che lo scrittore, ancora una volta, fosse ignaro della propria condizione («Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso?» [6 maggio 1938]): le pagine conclusive del diario sono uno spietato resoconto della sua immaturità sentimentale («Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età?» [9 marzo 1950]; «Al primo assalto dell’“inquieta angosciosa” [Afrodite], sono ricaduto nella sabbia mobile» [17 agosto 1950]). Un’immaturità il cui superamento rappresenta “tutto”, come recita la dedica a Constance Dowling («Ripeness is all», dal Re Lear) dell’ultimo romanzo La luna e i falò. Nemmeno lei, manifestazione estrema della Dea, gli permise di diventare “grande”.
Perché non c’è salvezza, in tutto questo? Al di là dell’arte, per le urgenze meno poetiche Pavese avrebbe potuto facilmente trovare una soluzione. A mali estremi, estremi rimedi, come lui stesso osservò in maniera disinvolta: «Chi gli piace sborare (sic) in fica, paghi» (17 aprile 1946). In diverse occasioni l’Autore nondimeno si rivela scettico sulle qualità rigenerative del sesso (ennesima “astuzia” dell’amore-passione), sia nei racconti (il rapporto coniugale banalizzato in Viaggio di nozze, la remissività di Elena che alla lunga annoia il protagonista de Il carcere) che naturalmente tra le pagine dell’infinito diario:
«In fondo, il piacere di chiavare non supera quello di mangiare. Se il mangiare fosse impedito come l’altro, sarebbe nata tutta un’ideologia, una passione del mangiare, con norme cavalleresche. Quell’estasi che dicono − il vedere, il sognare quando chiavi − non è nulla di più che il piacere di addentare una nespola o un grappolo d’uva. Se ne può fare a meno» (5 dicembre 1949).
Dal punto di vista anagrafico, Pavese aveva appena varcato le soglie del Parti des hommes de quarante ans di Charles Péguy, quello in cui il diradarsi dei matins triomphants avrebbe concesso all’artista un casto congiungimento con le proprie muse. Se i tormenti sessuali del Nostro non avessero rappresentato i sintomi di un’insanabile disperazione, egli si sarebbe trovato persino tragicamente “avvantaggiato” da tale prospettiva; a leggere i diari però si comprende bene il perché una risoluzione del genere lo avrebbe disgustato («Se non si è uomo, se non si possiede la potenza di quel membro, se si deve passare tra donne senza potere pretendere, come si può farsi forza e reggere?», [23 dicembre 1937]): lo scrittore non può infatti mostrarsi “possibilista” sull’opportunità di sublimare l’impotenza in arte, poiché per lui non avere una donna significa essere totalmente separati dalla vita e dunque anche dalle potenze ispiratrici: «Tutto potrai avere dalla vita, meno che una donna ti chiami il suo uomo. E finora tutta la vita era fondata su questa speranza» (4 gennaio 1938).
Questa mania insegue Pavese ovunque, persino quando si trova agli arresti. Come scrive alla sorella (15 febbraio 1936) per rincuorare un amico artista geloso del suo successo: «Consola Sturani, che è avvilito di fronte ai miei trionfi, e digli che preferirei essere, come lui, a letto con la moglie, piuttosto che aver scritto questo libro, che pure terrà duro, quando di tutti i miei coetanei nessun sentirà più nemmeno la puzza». Alla luce di ciò si potrebbe ipotizzare en passant che l’impotenza gli fosse particolarmente gravosa nella misura in cui acuiva l’ossessione per ciò che non avrebbe mai potuto ottenere: «Non si desidera di godere. Si desidera sperimentare la vanità di un piacere, per non esserne più ossessionati» (16 ottobre 1938).
Oggi che nessuno ha più niente da perdere, la spregiudicatezza interpretativa obbliga a porre la domanda più scomoda di tutte: perché Pavese sacrificò se stesso e non una delle novantanove troie in cui ebbe la sfortuna di imbattersi? Egli pone immediatamente la questione in termini di dilemma, optando -come prevedibile- per il suicidio: «È concepibile che si ammazzi una persona per contare nella sua vita? E allora è concepibile che ci si ammazzi per contare nella propria» (16 gennaio 1938).
Nei suoi scritti tuttavia ricorre con insistenza anche la smania di “regolare i conti” con l’universo femminile. Non soltanto a livello di confessioni private («Vederli abbracciarsi e spogliarsi e sapere come fanno, cosa si dicono, fino a che punto arrivano. Non è questo lo stato mentale in cui si commettono i delitti?» [26 gennaio 1938]; «Un altro – chiunque – a quest’ora l’avrebbe già uccisa» [26 marzo 1938]), ma anche come topos letterario (e tipicamente pavesiano) della complicità tra sesso e morte. In un passaggio de Il diavolo sulle colline (1948), per esempio, scrive:
«Pieretto si mise a parlare del sangue. Disse che il gusto dell’intatto e del selvaggio era gusto di spargere il sangue. “Si fa all’amore per ferire, per spargere sangue,” spiegò. “Il borghese che si sposa e pretende una vergine, vuole cavarsi anche lui questa voglia…”».
La tematica si connette alla necessità di “sverginare” tutta la terra, compito spettante ai sacrificatori, siano essi i borghesi, i “selvaggi”, o persino gli americani, che «nemmeno in un deserto ti lasciano in pace». Quest’ultima citazione viene dal capolavoro terminale La luna e i falò (1950), nel quale sesso sangue e sacrificio si compenetrano in pagine ispiratissime:
«Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di essere padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere”. Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando le montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lì si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva un giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese».
Lo stesso Lajolo dedica un paio dei capitoli della sua biografia alle vendette “letterarie” che Pavese si prese nei confronti del gentil sesso: dal «sangue, morte e la donna» con cui l’amico sintetizza la trama di Paesi tuoi (in effetti un’orgia di bestialità agreste e primordiale, con il tema dell’incesto che incombe dalla prima all’ultima pagina), al sogno omicida del protagonista de Il Compagno («”Raccolsi una pietra e tirai da lontano, mirando alla testa. La pietra batté sulla testa e […] Lilli cadde morta”. “È chi ama che uccide”, disse Linda») fino al vero e proprio “sacrificio umano” (così Lajolo) della giovane Santina (sempre de La luna e i falò) uccisa dai partigiani perché ritenuta una spia («La coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò»).
Tornando però all’ambito extra-letterario (perché «è con la donna – e non solo con la letteratura – che egli voleva vincere», osserva ancora Lajolo), per lo scrittore gli “olimpici” potevano comunque uccidersi (e uccidere) per amore, senza tradire la propria condizione di eletti: un caso che lo colpì fu quello di un compagno di scuola, il Baraldi, «giovane d’altri tempi, innamorato da romanzo eroico, bello e coraggioso, ch’io amo quasi come fossi una donna», che si suicidò assieme alla fidanzata («Ho un dispetto terribile di non essermi deciso prima di lui»).
Suicidarsi per amore tuttavia per Pavese rimane una debolezza, qualcosa che di solito fanno «le sartine deluse [che] tappano porte e finestre e, acceso carbone, si stendono su letto a rendere lo spirito» (da una lettera alla sorella del novembre 1935); come afferma uno dei personaggi femminili di Tra donne sole (1949): «Solamente le serve o le sartine vogliono uccidersi dopo una notte d’amore». Al contrario, il suicidio in sé è visto come manifestazione di coraggio e risolutezza:
«Perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando – che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un’ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma – parlo di me – si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di tutta la vita» (30 novembre 1937).
Al sacrificio di una donna egli avrebbe potuto persino dare un significato magico, come quel Mastro Manole della leggenda romena che, murando viva la propria moglie nel monastero che sta erigendo, conferisce un’anima all’edificio «attraverso un sacrificio umano di fondazione, una morte violenta» (così Mircea Eliade).
Tramite un siffatto rituale Pavese sarebbe riuscito (ovviamente dal suo punto di vista, che però non era soltanto il “suo” ma caratteristico di un ampio milieu culturale) non solo a sverginare la terra (e così “ereditarla”), ma anche a entrare in quella “vita stupenda” da cui si sentiva “tagliato fuori” (come scrisse in una delle ultime lettere all’ennesima donna che lo aveva rifiutato: «Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?»).
Pavese avrebbe potuto quindi avvalersi di potenti suggestioni culturali, ideologiche e financo “religiose”, per compiere un omicidio. Sarebbe ingenuo pensare che le élite con cui venne a contatto si sarebbero ritratte inorridite, invece di provvedere a giustificarlo, come peraltro fanno regolarmente quando il “sacrificio” è di loro gradimento (col senno di poi, potremmo persino interpretare la conventio ad excludendum di tali circoli nei suoi confronti come il segnale che il “sacrificio” sia stato, dalla loro prospettiva, per niente efficace).
Se non uccise, e perché egli fu realmente una vittima, e parlarne oggi come se una presunta misoginia (o qualsiasi altro nuovo “peccato”) lo rendesse automaticamente carnefice, è un modo per martirizzarlo un’altra volta, per sempre.