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L’unico Moro buono è quello morto: il martirio della memoria dello statista democristiano

L’anno in cui doveva cadere l’ennesimo decennale della scomparsa di Aldo Moro si è aperto con la sgradevolissima polemica di una ex brigatista: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del quarantennale?».

Il cinismo, seppur fuori luogo e anche disgustoso, sarebbe stato forse utile a restituirci un’immagine dello statista democristiano più vivida e meno “santinizzata”: tuttavia, è un dato di fatto che in questo primo spicchio dell’anno di “fasti” non se ne siano visti.

La tragedia è stata puntualmente liquidata come un episodio di cronaca, rispolverando un po’ di materiale dalle teche e nulla più. Anche qui, potremmo rintracciare qualche lato positivo nel silenzio dei chierici traditori, gli eredi degli stessi che condannarono Moro da vivo e lo esaltarono solo quando furono certi che fosse cadavere.

L’occasione è quindi ghiotta: il silenzio e l’imbarazzo dei “padroni della voce” offrono finalmente la possibilità di raccontare la vicenda Moro in modo politicamente scorretto. Come resistere, per esempio, alla tentazione di rispolverare i ferocissimi strali da prima pagina di Sciascia?

«Le immediate reazioni degli strati popolari alla notizia del rapimento [sono state] compianto per gli uomini della scorta, indifferenza, o peggio per quel che era capitato a Moro. […] Non fosse stato per quei cinque morti, per quei cinque che “si guadagnavano il pane” facendo scorta all’onorevole Moro, l’opinione sarebbe stata univoca: ma per tutt’altro verso» (cfr. “La Stampa“, 29 marzo 1978)

Permette allora una cattiveria sul grande scrittore siciliano: in quell’occasione egli non mostrò la libertà e l’anticonformismo dell’intellettuale “scomodo”, ma la spregiudicatezza del “monumento vivente”, uno status che gli concedeva di affermare qualsiasi cosa con la certezza che persino sulle castronerie più marchiane sarebbe calato un compìto oblio.

Eppure un “tarlo” dovette in qualche modo attanagliarlo, se cercò di risolvere con la letteratura quella evidente mancanza di pietas (una laicissima empietà, in senso etimologico), in primo luogo riducendo la tragedia di Moro a un parto della sua fantasia, come si evince a un’intervista a “Repubblica” del 23 marzo 1978:

«Come uomo, come cittadino, di fronte al caso di Moro sento lo sgomento e la pena di una qualsiasi persona che abbia sentimento e ragione. Ma, come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Questo mi ha fatto da remora nell’intervenire, come scrittore, anche per un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate “verificarsi”».

E, in seguito, rimodellando il romanzo della “autodistruzione democristiana” in versione ancora più onirica e labirintica, dando alle stampe quell’impossibile instant book che fu L’affaire Moro. Ci rifacciamo ai giudizi espressi da Miguel Gotor nel celebre epistolario della prigionia da egli curato:

«Lo scrittore siciliano era visibilmente compiaciuto […] del proprio sottile pseudorigore filologico, che gli consentiva di condannare moralisticamente la violenza brigatista e al tempo stesso di blandirla, ma anche di racchiudere in una stessa collana di agudezas, giochi di specchi e calembours, il dramma della vittima e la ferocia dei suoi carnefici, sovrapponendo un estremo all’altro fin quasi ad annullarli. […] Sciascia non aveva alcun interesse nei riguardi di Moro come persona, ma si schierava in prima fila nella battaglia sull’autenticità dei suoi scritti dalla prigionia, poiché il tema gli consentiva di indossare i sempre comodi e seducenti panni dell’antipotere istituzionalizzato, del moralista indignato, dello straniero in patria, alla ricerca spasmodica di un ruolo di intellettuale civile che potesse occupare lo spazio pubblico lasciato vuoto da Pier Paolo Pasolini, di cui però gli mancava – avrebbe detto Moro – il fervore».

Relegando il caso Moro «in una sfera di intoccabile perfezione letteraria», Sciascia ha portato a termine un’operazione forse intellettualmente più scorretta rispetto ai semplici proclami di “equidistanza” dei primi attimi.

Non vogliamo però insistere eccessivamente sul punto, poiché uno scrittore in fondo ha anche il diritto a de-civilizzarsi o de-civicizzarsi, a porsi ai margini di qualsiasi liturgia collettiva. Quello che invece ci preme sottolineare è che nell'”occultamento” del Moro vivo, più che del suo cadavere, parteciparono pure i “civilisti/civicisti” a oltranza, coloro i quali non trovarono nulla di meglio che fabbricare un culto della memoria manipolando totalmente la figura di Moro. Quasi una vendetta postuma, se non un “martirio della memoria”, consumata restituendo all’opinione pubblica nel migliore dei casi l’immagine di uno “sconfitto”, o addirittura di un “codardo”, che non è riuscito a salvare la pelle nonostante i suoi sospiri, pianti ed alti lai.

È necessario perciò respingere tutta la retorica che riduce Moro ad agnello sacrificale o “vittima eletta”, personificazione di una innocenza assoluta destinata a perire in un mondo crudele. Al contrario, l’uomo Moro ha espresso fino all’ultimo la sua vera natura di animale politico, con la consapevolezza della radice comune che unisce il suo mestiere alla guerra, al polemos. Non c’è stato un solo istante in cui egli abbia affrontato l’ipotesi della “trattativa” da una posizione di “debolezza”: nemmeno quella debolezza “cristiana” che talvolta gli viene imputata, poiché la sua profonda spiritualità gli impediva di considerare la fede come squallida favola consolatoria.

Incredibile quante parole si siano spese sul “Moro umanitario” e quanto invece poco si sia detto sui richiami alla “difesa della dignità nazionale” che costellano l’epistolario dei 55 giorni: ma se il politico fosse per miracolo sopravvissuto, è forte il sospetto che le sue lettere sarebbero state utilizzate per dipingere il ritratto di un mostro di amoralità e opportunismo.

Dai delicati toni di pessimismo cristiano e mesta filantropia saremmo passati ad accostamenti più arditi: Moro come il Principe di machiavelliana memoria (se non direttamente nicciana). Perciò ci teniamo il nostro Moro da vivo e ne facciamo l’emblema di una spregiudicatezza che ha come unico limite la salvaguardia della dignità nazionale.

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