Morte a Venezia-Mestre (storia della mia vita)

A Mestre un “ragazzo dei centri sociali” (26 anni, ma la qualifica vale a vita) è stato accoltellato a morte da un quarantenne moldavo tossicodipendente per aver cercato di impedire a quest’ultimo di rapinare una femmina. Ora, non so nemmeno cosa si aspettino da me i lettori: qualche trollata, dei meme, chutzpah a tamburella, boomerate del tipo “chi semina vento raccoglie tempesta” (magari attribuendo la frase al Kvce con un tazebao creato ad hoc per Whatsapp)?

Tutto quello che riuscirei a scrivere ricadrebbe obiettivamente nella categoria di “vilipendio di cadavere”, ma non posso far finta di essere una persona perbene, sia per la maschera che ho deciso di indossare sia per i tempi in cui mi trovo. Come dice il vecchio canto partigiano, Pieta l’è morta. Dunque si comincia.

In questa storia non c’è un solo elemento che non sia sbagliato. Partiamo dalle reazioni: “il manifesto” dedica la prima pagina alla vittima in quanto percepita come affine alla propria linea politica. Presumo che il leit motiv in redazione sia stato questo: Era un compagno, che diamine, potremmo permetterci la politicizzazione di un fatto di cronaca che coinvolge un immigrato, oppure possono farlo solo i fasci e i leghisti?. A parte le fantasie, i pezzi dedicati all’evento sono ancora più stucchevoli e credo sia il caso di commentarli direttamente non tanto per perdermi in polemiche altrettanto stucchevoli, ma solo per avere una “traccia” da seguire in una vicenda in cui c’è solo da pestare una merda dopo l’altra.

Parto quindi da il primo pezzo dedicato a La Vita di Jack (qui ci sarebbe già da osservare che il “quotidiano comunista” per i titoli di prima pagina fa sempre il verso a film più o meno celebri, ma in tal caso il richiamo a La casa di Jack, una pellicola di Lars Von Trier del 2018 che dipinge le gesta di un serial killer con ridicole pretese da “cinema d’autore”, pare una scelta davvero di cattivo gusto – ok basta polemicucce): Giacomo, 26 anni. Morto per non essersi voltato dall’altra parte.

Il giornalista comincia ricapitolando l’accaduto (alle 23 di venerdì 20 settembre 2024 “Jack” -all’anagrafe Giacomo Coppato– avrebbe cercato di “difendere una donna da una aggressione”, cioè sventare un tentativo di rapina, in Corso del Popolo -definito “la main street di Mestre”…-, rimediando una coltellata fatale dal malvivente) e definendo “Jack” come colui che non si gira dall’altra parte, rivelando di primo acchito una retorica assolutamente fuori luogo, in specie nel momento in cui il caso viene incastonato in un preciso contesto politico-ideologico.

Dalla stessa retorica, del resto, muove la sezione mestrina dell’ANPI, che descrive il gesto di Coppato come ispirato a “generosità e umana solidarietà” in coerenza con la sua “militanza sempre al fianco dei più deboli”. L’idea di voler costruire un nuovo romanticismo partigiano sulla figura della vittima si scontra immediatamente con la realtà: a smorzare i toni enfatici ci pensano infatti non solo il Presidente (in quota PD) del Consiglio comunale di Vicenza (città dove “Jack” lavorava come tatuatore), che scrive nero su bianco: «Mi auguro che nessuno indichi la vittima come un eroe o come un angelo, sono sicuro che non renderebbe giustizia al suo gesto e non rispecchierebbe le idee ed i valori di Giacomo», ma addirittura il padre stesso del giovane, che alla stampa dichiara che suo figlio avrebbe “fatto una cazzata, ma proprio una grande cazzata, con la C maiuscola”, giustificandolo la “follia” solo richiamando la sua indole altruista e generosa («Lo ha fatto perché lui era così, non poteva essere diversamente. Giacomo si buttava nelle cose, d’istinto, senza pensarci. Se c’era da aiutare si lanciava, senza ragionare sui pericoli»).

Spiace per la perdita, ma è evidente quanto sia gioco un inesprimibile sottotesto politico, riconducibile alle crociate contro la legittima difesa e i pistolotti sul far west e la “giustizia fai da te” che tale parte politica si è intestata da tempo. In sostanza una persona de sinistra certe cose non potrebbe, anzi non dovrebbe, farle. Non ci si improvvisa “sceriffi”, “giustizieri della notte” o “Batman”, giusto per usare formule utilizzate dagli stessi che ora stilano epitaffi per una platea deserta. Ecco perché si sfocia in un batter d’occhio nell’equivoco e nell’assurdo: non c’è alcuna “base comune” sui cui battibeccare, solo un miasma di accuse reciproche che danno un senso a una militanza più o meno sentita.

Torniamo alla main street di Mestre: lo scrivente del “manifesto” sostiene che la strada “un tempo popolata di vita e di movida oggi è ridotta a “un supermarket regionale dello spaccio e della violenza” per colpa del sindaco (di centro-destra) Luigi Brugnaro, il quale avrebbe “tagliato tutti i servizi sociali e le strutture di riduzione del danno della città in nome di una idea di ‘sicurezza’ tutta sua fatta di taser, pistole e di vigili palestrati“. In pratica, per il giornaletto di chi si crede un intellettuale militante la prospettiva migliore da cui affrontare la questione è buttarla in caciara senza indugio, incolpando l’ultimo sindaco giunto in città: un’impostazione che non rende onore alla vittima e neppure al carnefice, ridotto anche lui a “vittima collaterale” di un sistema basato su repressione e ghettizzazione, instauratosi però dopo vent’anni di buongoverno rosso.

Non contento di aver collezionato solo paradossi, l’articolista indulge nel citare il “comunicato” del Centro Sociale Rivolta di cui faceva parte “Jack” (emanato tramite un mezzo d’eccellenza quale Facebook, come a testimoniare la propria posizione di “retroguardia” anche a livello social), dal quale si apprende che i “compagni” della vittima esigono “di non essere usat3 (sicda chi semina odio” perché “c’è un colpevole. È una persona, una singola. Non importa dove sia nato o di che colore abbia la pelle” (ma perché tirare in ballo la melanina lol?), dedicando il proprio pensieriuccio a chi “ha sempre lottato per una società inclusiva, multiculturale, antirazzista“.

È proprio il caso di affermare che Un bel tacer non fu mai scritto. Non dico di far finta di nulla, ma almeno lasciare che la notizia scivoli verso la cronaca locale (come accade regolarmente quando un immigrato uccide un italiano e una delle due parti non riesce a strumentalizzare l’episodio), per non rendersi ridicoli buttando in pasto la memoria di un amico nell’habitat naturale del boomer del XXI secolo, quel Facebook dove tra un aneddoto sulla Naja e l’immagine di un gettone del telefono la parola d’ordine è una sola (“risorsa boldriniana”), che ha già trasvolato nella sezione commenti della pagina del centro sociale.

Il “manifesto” infine conclude piagnucolando sui comunicati di Brugnaro e di Zaia, che rappresentano proprio “quello che Jack non avrebbe voluto”: «Lui che era tra i promotori del comitato “Riprendiamoci la città” per chiedere un approccio radicalmente diverso alle tematiche della “sicurezza” urbana. Un approccio fondato sulla diffusione capillare di servizi sociali, reti di operatori di strada e di assistenza». E lo ius scholae, non ce lo mettiamo?

Il seguito del primo pezzo è l’arringa di Gianfranco Bettin (L’abbandono urbano dietro l’enfasi repressiva), sociologo “integrato” (in quota Verdi) che gestisce i rapporti tra establishment piddino e centri sociali veneziani, il quale peraltro ha partecipato ai fasti funebri indetti dai “compagni” della vittima. Almeno da un professò ci si sarebbe aspettati un’analisi minimamente più elaborata, e invece è la stessa identica solfa: la “responsabilità è di un singolo” (il tossicodipendente moldavo) ma anche della politica (“il sindaco Brugnaro“) che non sa gestire le periferie perché troppo impegnato a tuffarsi in piscine piene di champagne.

La paranoia che il caso possa essere strumentalizzato dai “seminatori d’odio” (ogni volta che sento questa espressione mi torna in mente il meme di Salvini-contadino) è già di per sé sintomo di un completo distacco dalla realtà: dell’episodio non importa quasi nulla agli abitanti di Mestre, ormai abituati al martirio quotidiano, figuriamoci a un’Italia che non ha di certo bisogno dell’ennesimo “caso da manuale” per convincersi che l’immigrazione crea più problemi di quanti dovrebbe risolverne.

Eppure, al di là delle frasi fatte, Bettin involontariamente esprime una verità: il centro sociale da cui proveniva Coppato era uno dei pochi che manifestava un qualche interesse per il “terreno specifico della sicurezza”, atteggiamento decisamente “inusuale per realtà di questo tipo” (ipse dixit). Senza giri di parole, è come se lo studioso, elogiando il “Rivolta” come rara avis che avrebbe cercato di far qualcosa di concreto per aiutare la comunità in cui si è inserito, stesse ammettendo in modo indiretto che nel 99% dei casi i centri sociali, ad onta della definizione, sono realtà totalmente avulse dal sociale (aggiungerei che in molti casi contribuiscono persino ad aumentare i comportamenti antisociali).

Se questa chiave di lettura è plausibile, allora i “rivoltari” dovrebbero essere i primi a riconoscere che il loro “Jack” ha compiuto un gesto controproducente, dettato esclusivamente dall’impeto del momento, poiché in nessun caso improvvisarsi “sbirri” dovrebbe essere un comportamento accettato. Quanto accaduto è la prova tangibile che quelli del “Rivolta”, nel corso di quasi trent’anni (il centro sociale esiste dal 1995), non sono riusciti a elaborare una soluzione plausibile, limitandosi a organizzare concertini a cui gli “indigeni” si guardano bene dall’assistere (e tantomeno gli immigrati, a meno che non siano in cerca di un luogo in cui fumare erba in tranquillità). Altrimenti le cose non sarebbero andate così, perché da una parte il giovane accoltellato avrebbe avuto una qualche “base” da cui partire per reagire un furto (fenomeno piuttosto comune della zona), e dall’altra anche in presenza del “fattaccio” non si sarebbe corsi a sbattere il mostro (immigrato) in prima pagina.

Il problema fondamentale è che qualsiasi iniziativa si voglia assumere in tale contesto, sembra inevitabile incappare in quella “deriva securitaria” denunciata da Bettin & Co. Chi è passato da Mestre sicuramente avrà potuto constatarne la situazione: l’area è res nullius da ben prima di Brugnaro e non sarà di certo un vigile col taser a rimetterla a posto.

Guardiamo la realtà per quella che è: un 26enne italiano che di mestiere faceva il “tatuatore” e -assicura il “manifesto”- era anche “un bravissimo musicista reggae”, è appena uscito da una festa di compleanno di un amico del padre (che, en passant, era un “imprenditore jesolano”, qualifica ai quali veneti conferiscono una particolare espressione dialettale che non voglio ripetere).

“Jack” ha bevuto, oppure ha fatto altro (non non so dire e non voglio sapere): in ogni caso, vede un tossicodipendente moldavo alla soglia dei quarant’anni, che non si sa né come è capitato in Italia né perché si sia fermato a Mestre (oddio, i motivi per cui personaggi del genere si fermano laggiù  sono abbastanza intuibili), il quale sta rubando uno zaino a una 50enne colombiana “al telefono col suo fidanzato” (non invento nulla). “Jack” si avvicina per metterlo in fuga e il tizio sfodera un coltello e colpisce sia lui che il suo amico (che si è salvato). Il moldavo, non contento di quanto appena combinato, trova il tempo di rapinare una turista giapponese, ma viene messo in fuga da “un albanese che si è spacciato per poliziotto”.

Alla fine l’extracomunitario viene ripescato dai pulotti e si scopre che ignora completamente l’italiano (parla solo russo – tranquilli, non è un agente di Putin) e che è letteralmente su un altro pianeta. Un “alieno” per Mestre, per Venezia, per il Veneto, per l’Italia, per l’Europa, nonché per tutte le piazze di spaccio che potreste aggiungere. Giunti a tal punto della macabra favola, qualcuno dovrebbe spiegarmi in che modo uno sportello in più del Serd (“Servizi per le Dipendenze patologiche”), come prescritto dal sociologo di cui sopra, avrebbe potuto evitare questa situazione. Sarebbe meno patetico invocare direttamente la legalizzazione dell’eroina e creare delle “stanze del buco” sul modello svizzero (il quale, ovviamente, funzionava solo nella Svizzera anni ’80 dove il tossico riciclava persino il laccio emostatico).

Per quanto riguarda la mia esperienza (perché nel frattempo ho cominciato a bere e il caso di Coppato è sparito dalle prime pagine, perciò sto letteralmente parlando per il cazzo in modalità Three Drinks Later), io provengo dalla peggiore provincia milanese che si possa immaginare, dove il sindaco comunista che ha regnato per cinque legislature, allo scopo di risollevare le finanze cittadine ha iniziato a “importare” detenuti ai domiciliari da tutta Italia, trasformando un timido paesotto della “brughiera lombarda” (cit. Piero Vassallo, ma in realtà no) nello snodo settentrionale di ndrangheta camurra e mafia, un hub della criminalità organizzata terronica nel Sacro Nord.

Ecco, io sono cresciuto tra parcheggi condominiali in cui dei latitanti venivano giustiziati con un colpo alla nuca e villette di narcotrafficanti internazionali con apposite “stanze delle torture” nei sotterranei, eppure la prima volta che ho realmente temuto per la mia incolumità è stato quando sono dovuto passare obbligatoriamente nei pressi della Stazione di Mestre.

In due parole, da vero coglioncello spaesato sono passato in una zona delimitata da una sorta di recinto in cui non avrei dovuto in alcun modo passare, e sono stato minacciato da uno spacciatore marocchino che pretendeva a tutti i costi un “dazio” anche in forma di acquisto di droga, ma siccome io sono razzista, fascista e motivato esclusivamente da sentimenti di odio & genocidio, me la sono cavata semplicemente facendo Mister Totalitarismo (all’epoca ero già il vostro Mr. T.). Sapete com’è, Céline, forse anche Hamsun, ma roba che comunque le zekke non leggono perché pensano di esser dalla parte giusta della storia.

Adesso che mi trovo nei reami di Bacco, posso davvero provare profonda pietà per Giacomo Gobbato (che finora per un disdicevole equivoco ho chiamato “Coppato”, senza accorgermi che in dialetto panveneto esso equivale quasi ad “ammazzato”, copàto). Del resto, anch’io mi sono trovato in una situazione simile nella periferia meneghina di cui vi parlavo. La voglio raccontare proprio tutta per farvi capire che sono davvero un figlio del popolo, al di là della maschera (antigas) che indosso e dell’aura di finto-colto che mi sono costruito (la mia prima bibliografia di riferimento deriva da un forum di ultras laziali).

Correva la Pasqua 2016 e io ero un giovane e ingenuo trentenne (anzi trentunenne), che come atto di carità cristiana (da un misantropo, l’unico possibile) si è recato da un amico d’infanzia appena operato di tumore alla faccia (una storia orrenda che fa surrogare tutte le dimostrazioni teoriche sull’esistenza di Dio alla ricerca ansiosa di una causa dovuta a fattori ambientali come l’industrializzazione, l’amianto ecc): dopo avergli portato una colomba con lo stemma dell’Inter e aver adempiuto a tutt’i reguli sociali con la moglie (parlo di un 7 di origine meridionale che è riuscito a trovare figa con un quarto del volto devastato), ripresi l’autobus per tornare alla mia solitaria magione (sottoscala in via Tibaldi a 800 euro al mese).

Sul mio percorso, mi imbattei in un pericolosissimo esemplare afro-balcanico di “risorsa bergogliana” (la versione weaponized delle “boldriniane”): faceva parte di un pool genico raccattato dai “preti di periferia” per stipare una fantomatica “casa gialla” che le amministrazioni di centro-destra avevano adibito a “ostello per i papà divorziati”. Il lugubre palazzone diroccato nel giro di una legislatura si era riempito di “puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori”: una emanazione di quel caos mi venne incontro completamente strafatto, prendendomi per collo e cercando di strapparmi il cellulare (un Nokia Blackberry LOL!!!).

Io reagì dandogli un gancio sulla mascella che mi sfracellò le nocche del pugno destro (ancora oggi, quando cambia la stagione, sento dolore OK BOOMER) e lo fece cascare a terra come… no, non come Gesù Cristo (fanculo Mario Brega e le sue stronzate blasfeme), ma come un disgustoso maomettano che per una volta nella vita sua ha trovato il crociato sbagliato.

Ricordo che tornai a casa terrorizzato e mi misi a bere litri di vinello del discount, poi chiamai lo zio sbirro per chiedergli se nella zona ci fossero telecamere (visto che pensavo di averlo ucciso). Nei giorni successivi seguì il TG3 regionale della Lombardia per capire se qualche magrebino fosse morto in circostanze misteriose, ma nulla. Rimembro senza quiete quelle giornate: chiuso in casa a bere divorando decine di uova al tegamino (perché vi racconto queste cose, che cazzo mi succede?).

Vabbè, insomma, avete capito: io sono un sub7 che, grazie alle proprie esperienze personali e al patrimonio intellettuale tramandato dalla cosiddetta “estrema destra”, ha potuto teorizzare un’antropologia negativa tramite la quale costruirsi uno pseudo-istinto magicamente allineato con l’anima mundi.

Non penso, purtroppo, che i frequentatori dei centri sociali siano in grado di sfiorare a tali vette di consapevolezza: quelle povere zekke si illudono che un quartiere negrizzato possa trasmutarsi nella Zurigo degli anni ’60 organizzando concertini tra amici e fumandosi qualche cannetta al riparo da sguardi indiscreti (= la sbirranza tenuta al guinzaglio dalla junta piddina).

D’alto canto, i loro “spacciatori di idee” sono ancora alle prese con i miti russoviani -maldigeriti, nonostante abbiano avuto tre/quattro secoli di tempo- del bon sauvage, mentre i normie muoiono come mosche per mano immigrata manco fossero effettivamente degli eroinomani moldavi.

La soluzione non è perciò politica, nella misura in cui la “politica” da destra si riduce al “taser fornito al vigile palestrato” e da sinistra alla sortita di una schöne Seele completamente deformata dalle fole del progressismo.

Mi spiace essermi dilungato indebitamente, ma anch’io avrei reagito come Gobbato nelle circostanze di cui stiamo discutendo, e l’intero globo terracqueo mi avrebbe -giustamente- ricordato come la merda fascista quale sono. Ad ogni modo, per giungere a una conclusione, se dovesse capitarmi una roba del genere vi prego di ricordarmi col meme che segue:

AVVERTENZA (compare sotto ogni pagina, dunque non allarmatevi): dietro lo pseudonimo Mister Totalitarismo non si nasconde nessun personaggio particolare, dunque accontentavi di giudicarmi solo per quello che scrivo. Per visualizzare i commenti a un post cliccare "Lascia un commento" in fondo a ogni articolo. Il sito contiene link di affiliazione dai quali si ottiene una quota dei ricavi senza variazione dei prezzi. Se volete fare una donazione: paypal.me/apocalisse.

3 thoughts on “Morte a Venezia-Mestre (storia della mia vita)

  1. VIVA LA CHIESA CHE CI DIFESA
    E DON ORAZIO CHE CI FA SAZIO
    GRAZIE CONVENTI CHE CI CONTENTI
    VIVA LI ISTITUTI CHE DA I VESTITI
    GRAZIE LE SUORE A TUTTE LE ORE
    MASHALLAH

  2. Caro Mister Totalitarismo (spero potermi permettere la familiarità), dovrebbe bere più spesso. Trovo questo articolo di un ironia e di un lirismo affascinante. Oltre a rivedermi per esperienze in altre zone d’Italia, ma simili, nella descrizione della periferia brianzola e del suo degrado. Ne scriva altri, ed Ad Maiora ! Si consoli, in un universo parallelo Победа будет за нами!

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