Una battaglia che mi trova generalmente d’accordo con i movimenti maschili sorti negli ultimi anni è la richiesta di equiparazione tra circoncisione e infibulazione. Perché la questione è in effetti semplice: se consideriamo le mutilazioni genitali femminili come una espressione di barbarie e violenza, perché non farlo anche con quelle maschili?
Per farsi un’idea delle principali obiezioni “maschiliste”, consiglio la lettura di uno degli articoli più esaustivi sul tema, Circumcision: The double standard of genital mutilation (“A Voice for Men”, 19 agosto 2014). L’Autore, oltre a offrire uno spaccato dell’orientamento generalmente favorevole degli americani (sono i medici i primi a suggerire la circoncisione ai genitori), snocciola anche cifre preoccupanti sul business sorto attorno alla pratica (oltre ai ricavi per le operazioni, le cliniche possono vendere i prepuzi alle università o all’industria cosmetica) e sui danni alla salute che essa comporta (nonostante in ambito scientifico vi sia una certa reticenza a fare ricerche in tale direzione).
Negli Stati Uniti oltre la metà della popolazione maschile è circoncisa (la maggior parte sin dalla nascita); inoltre, le autorità sanitarie americane incoraggiano la pratica durante le periodiche campagne contro l’Aids (nonostante non esista prova della reale efficacia dell’operazione nel prevenire il contagio):
«Per combattere l’Aids, la nuova arma dell’America […] è la circoncisione obbligatoria per i neonati. […] La pratica religiosa che unisce ebrei e musulmani, e che i cristiani rigettarono già con San Paolo, negli Stati Uniti, va detto, si è trasformata da più di un secolo in una operazione chirurgica così diffusa da essere quasi di routine. Le statistiche parlano del 79 per cento dei maschi, soprattutto bianchi (88 per cento) e neri (77 per cento) non ispanici. […] L’effetto-circoncisione si basa però sull’incidenza nell’Africa musulmana, dove i circoncisi riducono il rischio della metà. Ma già un documento […] rivela che “gli studi hanno dimostrato l’efficacia della circoncisione soltanto nei rapporti eterosessuali, che sono il modo di trasmissione dell’Hiv predominante in Africa, mentre la trasmissione più diffusa negli Usa è quella omosessuale”. Ma se l’efficacia è relativa perché esporre tutti i neonati a un intervento pur sempre chirurgico?» (Usa, ipotesi circoncisione di massa, “Repubblica”, 24 agosto 2009).
Il tentativo di addurre giustificazioni “igieniche” sono risibili: che dire dell’aumento dei rischi di infezione conseguenti alla rimozione del prepuzio, nonché della progressiva perdita della sensibilità al glande? Pare che, come sottolinea anche l’articolista di cui sopra, i motivi per cui negli Stati Uniti è considerato normale far circoncidere i figli siano anche “culturali”: è naturale che un popolo auto-proclamatosi “eletto” cerchi di imitare le usanze che nel proprio immaginario attestano un legame privilegiato con la divinità (e inevitabile, quindi, che una nazione fondata da puritani adotti costumi “giudaizzanti”).
In Italia non siamo in grado di quantificare la diffusione del fenomeno, poiché, come detto, non è assolutamente percepito come un problema. Al contrario, l’attenzione verso l’infibulazione non viene mai meno: il Ministero per le Pari Opportunità ha persino istituto un numero verde contro le mutilazioni genitali femminili, in linea con una campagna internazionale promossa dalle Nazioni Unite. Non pare tuttavia che l’iniziativa abbia avuto molto successo, sia perché, come è noto, per gli standard attuali la violenza degli immigrati contro le donne è solo una manifestazione della propria “identità”, che va difesa e tutelata dal colonialismo culturale delle società che li ospita; sia perché, dopo l’elezione di Donald Trump, l’islam è entrato a far parte del bagaglio ideologico dei suoi oppositori (vedi l’hijab diventato magicamente un simbolo femminista).
Al di là di tale andazzo, l’infibulazione suscita comunque una qualche indignazione (se non altro nella stampa conservatrice), mentre sollevare il minimo dubbio sulla circoncisione continua ad apparire come un atteggiamento “blasfemo”. Nel nostro Paese le sentenze sulla mutilazione genitale maschile si contano sulle dita di una mano e riguardano peraltro esclusivamente le condizioni in cui viene praticata, mai la “sostanza”.
Poco meno di dieci anni fa il gup del tribunale di Bari, alle prese con il caso di un bambino di origine nigeriana deceduto per dissanguamento in seguito a un “intervento” casalingo, sentenziò che «la circoncisione è un rito giustificato e giustificabile perché trova la sua ragion d’essere nella stessa Carta costituzionale, ma l’espletamento di tale rito non può prescindere dalle più comuni regole poste a tutela del diritto alla salute». La madre venne quindi condannata a un anno di reclusione per omicidio colposo (purtroppo di recente abbiamo dovuto assistere a un caso simile).
La “ragion d’essere” evocata nella sentenza risiede nell’articolo 19 della Costituzione, che sancisce: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Ancora una volta, sfuggono i motivi per cui la circoncisione troverebbe la sua raison d’être nella stessa Costituzione che al contempo vieta l’infibulazione.
È opportuno a questo punto aggiungere che uno dei motivi principali per cui la circoncisione non verrà mai messa in discussione, almeno a livello mainstream, è ovviamente l’importanza che le attribuiscono le comunità ebraiche, le quali in nessun caso accetterebbero una campagna anti-circoncisione condotta con le stesse modalità di quelle anti-infibulazione (nemmeno se fosse ridotta a una prospettiva radicalmente “islamofobica”).
Attorno alla questione ruotano effettivamente troppi “interessi”: da una parte la religione, con l’islamicamente corretto che procede di pari passo al giudaicamente corretto (una situazione in cui forse nemmeno un San Paolo redivivo riuscirebbe a districarsi); dall’altra, il femminismo che, come sottolinea ancora “A Voice for Men”, «non vuole condividere il podio delle vittime con nessuno» (per questo è passata sotto silenzio la recente “mattanza di prepuzi” a cui sono stati sottoposti dodici uomini kenioti, così come regolarmente vengono censurate le lapidazioni per adulterio maschile nei regimi islamici, dalla Somalia all’Iran).
Per le virtù del relativismo metodologico, così selettivo nel momento in cui si imbatte in temi che potrebbero urtare la suscettibilità di taluni o contravvenire ai dogmi del politicamente corretto, a fornire alla circoncisione una base culturale (oltre a quelle religiose e ideologiche), interviene l’antropologia. Ricordo, per esempio, un’imbarazzante apologia della mutilazione genitale maschile (per giunta in versione tribale) nel volume Contro l’identità (1996) dello studioso Francesco Remotti, nel quale costui non si perita di mettere sotto accusa i missionari cristiani per aver osteggiato l’usanza dei BaNande congolesi di scheggiare il pene dei pre-adolescenti con pietre appuntite. Secondo l’antropologo, i “colonizzatori” avrebbero «sgretolato una cultura insieme al suo momento più formativo e critico», negando «ogni senso educativo all’olusumba [scil. il rituale della circoncisione], facendolo così retrocedere a una mera manifestazione di superstizione, se non di barbarie».
Se nella stessa accademia la critica alla circoncisione è un tabù, risulta difficile pretendere un mutamento di sensibilità non dico da parte di rabbini, imam e dottori americani, ma dalla stessa opinione pubblica. Ecco perché poi uno finisce tra i “maschilisti”…